Le Monde Diplomatique: la spinosa spartizione della Palestina e lo Stato unico


Iniziati il 2 settembre sotto l'egida del presidente Barack Obama, i negoziati israelo-palestinesi risentono non solo dell'espandersi della colonizzazione, ma anche delle visioni radicalmente contrastanti dei due protagonisti su Gerusalemme, i rifugiati, le frontiere, le acque. L'impasse porta un certo numero di responsabili, anche israeliani, a sostenere la creazione di un solo stato su tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano. «Il pericolo minore, il male minore, sarebbe la creazione di un unico stato con uguali diritti per tutti i suoi cittadini», dichiara il presidente del Parlamento. Un ex ministro, figura autorevole della vita politica, rincara: ormai non c'è altra soluzione che la proclamazione di un solo stato su tutto il territorio storico della Palestina, dal Mediterraneo al Giordano. Una giovane deputata dalle solide convinzioni religiose difende le stesse posizioni. Tre personalità palestinesi?Tre membri dell'organizzazione islamista Hamas? Tre antisionisti europei? No, è la riflessione di tre eminenti esponenti della destra israeliana.Il primo, Reuven Rivlin, rifiuta l'idea di una minaccia demografica araba e osserva che questo modo di pensare «porta a giustificare il trasferimento o l'uccisione degli arabi. Sono inorridito da queste idee. Vado in scuole dove, quando si simulano le elezioni, Lieberman [il ministro degli affari esteri, dirigente del partito di estrema destra Israel Beitenu] ottiene il 40% dei voti e sento dei bambini dire che bisognerebbe uccidere gli arabi (...) È un atteggiamento che deriva dalla posizione condiscendente dei socialisti [il Partito laburista] i quali affermano "noi [gli ebrei] qui e loro [gli arabi] là". Non l'ho mai capito. Quando Jabotinsky (1) diceva "Sion ci appartiene", voleva dire: un primo ministro ebreo e un vice primo ministro arabo (2).»Il secondo, Moshe Arens, si è distinto come ministro della difesa e ministro degli affari esteri negli anni '80. Padrino politico di Netanyahu, considerato un «falco», in un dibattito apparso sul quotidiano Haaretz ha dichiarato: «Cosa succederebbe se la sovranità israeliana si applicasse alla Giudea e alla Samaria e si offrisse alla popolazione palestinese la cittadinanza israeliana? Tutti coloro che, in Israele e all'estero, considerano "l'occupazione" un male insopportabile sarebbero soddisfatti di un cambiamento che libererebbe Israele da un grande peso (3)Ma come assorbire questa popolazione? Israele, risponde Arens, include già minoranze ben inserite, come i drusi e i circassi. Quanto agli arabi musulmani, le loro difficoltà a integrarsi «sono dovute ai successivi governi israeliani che non hanno preso misure efficaci»: a suo parere, è questa la priorità su cui bisogna impegnarsi. La terza personalità ad avere cercato il consenso israeliano è Tzipi Hotovely, la più giovane rappresentante del Parlamento, stella nascente del Likud a cui ha aderito su sollecitazione personale di Netanyahu.Ostile al disimpegno a Gaza nel 2005, ritiene che quella vicenda abbia dimostrato il fallimento di qualsivoglia idea di ritiro. Sostiene inoltre l'importanza del mantenimento delle colonie: «Gli ebrei hanno vissuto a Hebron, a Beit El. Sono luoghi biblici. È da Hebron che il re David ha cominciato a edificare il suo regno. Non penso che possiamo abbandonarli, altrimenti che significato avrebbe il sionismo?Sionismo vuol dire il ritorno a Sion, ritornare a Gerusalemme, ritornare in tutti i luoghi biblici. Il processo di pace va dunque previsto senza sradicare gli abitanti delle colonie (4).» Non resta quindi altra possibilità che l'estensione della legge israeliana a tutta la Cisgiordania e la concessione della nazionalità e del diritto di voto ai palestinesi, in breve uno stato unico che, per lei come per Rivlin o Arens, non può essere che uno «stato ebraico».Queste proposte tentano di risolvere una delle contraddizioni fondamentali dell'ala liberale - nel senso politico del termine - della destra israeliana: come conciliare la rivendicazione alla sovranità sull'insieme della «Giudea e della Samaria» (la Cisgiordania) con i principi democratici?Come evitare l'instaurarsi di un sistema di apartheid, nel quale i palestinesi sarebbero privati dei loro diritti politici? Già Menahem Begin, che, nel 1977, ha condotto per la prima volta la destra alla vittoria, aveva tentato di risolvere il dilemma. Dopo aver accolto il presidente egiziano Anwar El-Sadat a Gerusalemme, nel novembre 1977, aveva proposto un piano che definiva la sua concezione dell'autonomia palestinese e aveva offerto ai residenti di Cisgiordania e Gaza la scelta tra la nazionalità israeliana e quella giordana e, di conseguenza, il diritto di voto per uno dei due parlamenti.L'idea è stata poi rapidamente abbandonata, perché si scontrava con un ostacolo che ancor oggi nessuna delle tre personalità ricordate riesce a superare: come conciliare la rivendicazione di uno «stato ebraico» con la concessione del diritto di voto ai palestinesi? Arens sostiene che sarebbero solo il 30% della popolazione totale, ma sottostima il numero di abitanti della Cisgiordania e «dimentica» Gaza. Come potrebbe un tale piano impedire alla popolazione palestinese di superare la fatidica soglia del 50%? Anche con il 40%, sarebbe impossibile formare un governo senza l'appoggio di una parte dei palestinesi, di cui però non si capisce perché mai dovrebbero sostenere il governo di uno «stato ebraico».
Soluzione interinale a lungo termine
Quali che ne siano i limiti e le contraddizioni, queste tesi iconoclaste riflettono il pessimismo generale che accompagna l'impasse di un «processo di pace» da anni tenuto in vita artificialmente. Nonostante la ripresa dei negoziati israelo-palestinesi, il 2 settembre 2010, sotto l'egida del presidente Barack Obama, sono ormai pochi i commentatori che scommettono sulle possibilità di rianimare il moribondo. Lo scoramento si è esteso e colpisce prima di tutto i responsabili americani che si occupano del dossier da decenni. Dal 1988 al 2003, Aaron David Miller è stato consigliere di sei successivi segretari di stato, sotto tre presidenze. Ha partecipato a tutte le trattative e i negoziati, pubblici e segreti. In un sensazionale articolo dal titolo molto esplicito - «La falsa religione della pace in Medioriente e come sono diventato miscredente (5)» - , spiega che il conflitto israelo-palestinese non è più prioritario per Washington, che altri come l'Iraq, l'Afghanistan, il Pakistan, e in particolare il conflitto con l'Iran monopolizzano la sua attenzione, e che anche una grande potenza come gli Stati uniti non può fare tutto allo stesso momento, soprattutto in questi tempi di crisiI credenti devono riesaminare la propria fede, nel momento in cui l'estendersi del potere su tutto il mondo supera le capacità dell'America - scrive Miller. Gli Stati uniti devono fare quello che possono, lavorare con gli israeliani e i palestinesi per negoziare le questioni centrali dello statuto finale (...), aiutare i palestinesi a sviluppare le proprie istituzioni, indurre gli israeliani a sostenere i palestinesi permettendo loro di respirare economicamente, estendere la loro autorità e mantenere la calma a Gaza. (...). Ma l'America deve essere cosciente tanto di ciò che non può fare, quanto di ciò che può fare.» Anche un altro testimone influente, Robert Malley, che ha partecipato come consigliere del presidente William Clinton ai negoziati di Camp David (luglio 2000), trae dalla sua esperienza conclusioni pessimistiche e sviluppa una critica radicale della soluzione di uno stato palestinese accanto a Israele: «Questa idea non è la risposta ai problemi che pretende di risolvere. Promette di chiudere un conflitto nato nel 1948 e forse prima, ma si preoccupa solo dei problemi sorti nel 1967.Mettere fine all'occupazione dei territori palestinesi è fondamentale (...), ma le radici del conflitto sono ben più profonde: per gli israeliani, si tratta del rifiuto palestinese di riconoscere la legittimità dello stato ebraico; per i palestinesi, della responsabilità israeliana nella loro espropriazione e nella diaspora che ha accompagnato la nascita di Israele (6).» La creazione di uno stato palestinese, il dibattito sulla percentuale di territorio che ciascuno recupererà, non calmeranno «le emozioni più profonde e viscerali, le nostalgie e i rancori».Che fare, visto che Malley respinge nello stesso tempo anche la soluzione di un solo stato? Come molti commentatori americani, sostiene l'idea di una «soluzione interinale a lungo termine», i cui contorni variano, ma che permetterebbe di rimandare a più tardi (a quando?), i dossier più sensibili, e cioè quello di Gerusalemme o dei rifugiati. Roger Cohen, noto editorialista di The New York Times ha riassunto così questa posizione (7). «Obama, che ha già ricevuto il premio Nobel, dovrebbe ridimensionare le attese, smettere di parlare di pace, bandire la parola e cominciare a parlare di distensione. È questo che vuole Lieberman, è questo che dice di volere Hamas, è il senso del tirarsi indietro di Netanyahu. Non è quello che vuole Abbas, ma non ha potere. Come mi ha detto uno specialista israeliano in scienze politiche, Shlomo Avineri, "uno status quo non violento non è certo soddisfacente, ma neanche tanto male. Cipro non è così male." (...) La pace dei coraggiosi deve essere sostituita da una tregua dei mediocri.»Il pessimismo è alimentato da una falsa simmetria che segna dal 1993 l'azione delle grandi potenze: due popoli vivono su questa terra, devono arrivare a un accordo, il che presuppone «buona volontà» e l'isolamento degli estremisti da «entrambe le parti». Un'impostazione che nasconde le specifiche responsabilità dell'occupante e lo mette sullo stesso piano dell'occupato. E che dimentica che tutti i governi israeliani, anche dopo gli accordi di Oslo, hanno perseguito una politica di conquista della terra: il numero dei coloni dal momento della loro firma, nel 1993, a oggi è passato da centomila a trecentomila, senza contare i duecentomila installati a Gerusalemme Est. Parallelamente, il 45% del territorio della Cisgiordania è rappresentato dall'annessione «dei territori situati a ovest del muro di separazione, delle terre detenute da colonie ufficiali e selvagge, degli spazi utilizzati per percorsi di aggiramento e delle zone militari chiuse della valle del Giordano che le autorità israeliane intendono comunque conservare (8)» I partiti politici israeliani, di destra come di sinistra, rifiutano impunemente le risoluzioni delle Nazioni unite, la legalità internazionale.L'esplodere della seconda Intifada, nel settembre del 2000, ha permesso al primo ministro dell'epoca, Ehud Barak, di convincere la grande maggioranza dell'opinione pubblica ebrea israeliana che non c'era, anzi non c'era mai stato, un «interlocutore palestinese» (9). Anche la storica decisione del vertice dei paesi arabi a Beyruth, nel marzo 2002 - accettare una pace globale con Israele in cambio della creazione di uno stato palestinese nelle frontiere del 1967 - è stata respinta con sdegno. E questo rifiuto, il governo non lo paga in alcun modo, visto che le principali potenze del mondo, gli Stati uniti come l'Unione europea, la Cina come la Russia, trattano con lui come se l'occupazione non esistesse - anche se l'immagine di Israele nell'opinione pubblica si deteriora sempre più.
«Uguaglianza o niente»
In sostanza, il gruppo dirigente israeliano rifiuta, nei fatti, di riconoscere i palestinesi come uguali. Gli accordi di Oslo non hanno intaccato questa arroganza, né l'idea che la vita di un palestinese non vale la sicurezza di un israeliano. Forte dell'ostilità dei propri vicini, mettendo avanti la questione del genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, i dirigenti israeliani hanno costruito una concezione della sicurezza assoluta che nessuna potenza potrebbe pretendere e che trascina il paese in guerre senza fine. È possibile trovare una soluzione, se non viene riconosciuto il principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani che abitano questa terra?
«Uguaglianza o niente» proclamava l'intellettuale americano-palestinese Edward Said (10), un'idea ormai condivisa da diversi protagonisti, e prima di tutto dai palestinesi di Israele che la rivendicano con sempre maggior forza.
Da qui la preoccupazione di un giornalista israeliano, autore di uno dei primi libri dedicati ad al-Fath (11), Ehud Yaari. In un articolo della primavera 2010, sostiene che, entro qualche anno, il sostegno alla soluzione dei due stati diminuirà, che altre idee nasceranno, che la scomparsa dell'Autorità palestinese comporterà l'annessione de facto dei territori occupati e che i palestinesi riusciranno così a garantire «per effrazione la dominazione demografica che i dirigenti israeliani affermano di temere da decenni e che hanno tentato di evitare occupando piuttosto che annettendo. Questa annessione a rovescio non lascerà altra scelta che la coesistenza con una maggioranza araba (12).» A suo parere è dunque necessario un armistizio, che potrebbe essere facilitato da un ritiro di Israele sulla linea fissata dal «muro di sicurezza», il che comporterebbe lo smantellamento di sessanta colonie e il rimpatrio di cinquantamila coloni (su cinquecentomila...).
Tutti questi progetti di «soluzione provvisoria», nel quadro degli attuali rapporti di forza, non farebbero in realtà che prolungare, sotto altre forme, l'occupazione, dato che i palestinesi sono confinati in riserve, senza unità territoriale, senza controllo delle proprie frontiere, senza potere economico e politico. Quanto alla minaccia agitata dall'Autorità di una proclamazione d'indipendenza dello stato palestinese, essa appare risibile (13). Se non altro perché lo stato lo aveva già proclamato l'Olp nel 1988 e ha avuto il riconosciuto di più di un centinaio di stati. Se anche l'Unione europea facesse altrettanto, sarebbe poi pronta a trarne le conseguenze e a trattare Israele come una potenza occupante da sanzionare per costringerla a sgombrare dallo stato occupato?
Non meno problemi solleva la prospettiva di un solo stato su tutto il territorio storico della Palestina (14), come si vede dal dibattito sollevato in «campo pro-palestinese» dalle proposte di Rivlin o Arens.Uri Avnery, veterano della lotta per la pace, denuncia con forza i punti deboli di questi progetti: escludono Gaza; lo stato unico sarà ebreo; l'annessione della Cisgiordania permetterà il proseguimento della colonizzazione; la concessione della cittadinanza ai palestinesi si farà, al meglio, in una decina di anni, se non in una generazione
E il conclude: «Nel film di Roman Polanski, Rosemary's Baby, una giovane donna mette alla luce un bel bambino che si rivela essere figlio di Satana. La seducente prospettiva di sinistra di un unico stato si trasforma in un mostro di destra (15).»Questo punto di vista è contestato da Ali Abunimah, un intellettuale americano-palestinese, animatore del sito The Electronic Intifada e autore di un libro ben argomentato che sostiene uno stato unico (16). Anche se, come Avnery, rileva i limiti dei progetti della destra, prosegue: «Una volta che gli ebrei israeliani avranno riconosciuto la necessità di uguali diritti per i palestinesi, non potranno imporre unilateralmente un sistema che mantenga privilegi indebiti. Uno stato comune dovrà tener conto dei legittimi interessi collettivi degli ebrei israeliani, ma dovrà farlo anche per tutti gli altri».E fa un paragone con quanto è successo in Sudafrica: «A metà degli anni '80, la grande maggioranza dei bianchi aveva capito che lo status quo dell'apartheid era insostenibile e aveva cominciato a pensare a "riforme" ben lontane dalle richieste del Congresso nazionale africano (Anc), quali l'uguaglianza universale - una persona, un voto, in un Sudafrica non razziale. (...) Fino alla fine, i sondaggi indicavano che la grande maggioranza dei bianchi rifiutava il suffragio universale, ma accettava una sorta di divisione del potere, fermo restando il suo diritto di veto sulle decisioni strategiche (17)».
Hamas, da parte sua, resta fuori dal dibattito, limitandosi ad accettare la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza e a promettere, a queste condizioni, una hudna (tregua) più o meno lunga con Israele, ma senza riconoscimento. Rispetto a cosa comporterebbe «la liberazione di tutta la Palestina» e quale sarebbe il futuro della sua popolazione ebraica, il movimento islamista si limita a generiche dichiarazioni circa l'accettazione delle minoranze religiose da parte dell'islam. Mentree due organizzazioni più rappresentative dei palestinesi, al-Fath e Hamas, restano assenti dal dibattito, peraltro antico, sullo stato unico (...) intellettuali come Edward Said o Tony Judt, una parte del movimento di solidarietà con la Palestina, una frazione significativa, ma minoritaria, dell'opinione pubblica palestinese hanno sostenuto o sostengono l'utopia di uno stato unico e democratico (18). Essa però, come la proposta di al-Fath alla fine degli anni '60, è minata dalle sue stesse ambiguità: si tratta di uno stato di tutti i suoi cittadini sul modello sudafricano?


Di uno stato binazionale sul modello dell'ex Cecoslovacchia? Quale Costituzione si darebbe e quali garanzie offrirebbe alle diverse comunità, nazionali e religiose? Che scelte farebbe rispetto al contesto regionale? Aderirebbe alla Lega araba? Un tale progetto non può costruirsi se non a partire da una lotta comune tra i palestinesi e, quanto meno, una frazione significativa della popolazione ebraica israeliana. L'esempio del Sudafrica ricorre spesso. Ma, al di là del dibattito se Israele sia o no uno stato di apartheid, il modello sudafricano è stato possibile perché l'Anc, attraverso la sua alleanza con il Partito comunista, aveva una «base bianca». Per di più aveva adattato discorso e metodi di lotta alla sua volontà di costruire una società «arcobaleno» che evitasse l'esodo della popolazione bianca, come era avvenuto, ad esempio, in Angola e in Mozambico. Anche l'arma del terrorismo era stata utilizzata solo in modo limitato, temendo che gli alienasse il sostegno dell'opinione pubblica, in particolare bianca (19). L'Anc, pur lottando con intransigenza per il principio: «una persona, un voto», ha saputo tener conto delle paure della comunità bianca. Un approccio di questo tipo in Medioriente richiederebbe nuove forme di organizzazione, sia da parte palestinese che israeliana, per superare le paure, gli odi e i pregiudizi che separano i due protagonisti.
Ricordando il doloroso pellegrinaggio alla sua casa di Gerusalemme, il grande poeta palestinese Mahmoud Darwich scriveva: «Dovrò chiedere a sconosciuti che dormono/ nel mio letto... il permesso di una visita / di cinque minuti a me stesso? / Mi inchinerò rispettosamente davanti agli abitanti / del mio sogno di bambino? / Si chiederanno: chi è questo indiscreto visitatore straniero? / Potrò parlare / di pace e di guerra tra vittime e vittime / delle vittime, senza un solo inciso? / Mi diranno: Non c'è posto per due sogni / nella stessa alcova? (20).» 

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