Donatella Di CesareLa frattura del mondo ebraico e il resto dell’ebraismo

Il discorso del rav Di Segni, che è stato letto a Kippur nelle sinagoghe di Roma ed è stato pubblicato con un’edizione speciale del notiziario quotidiano “l’Unione informa” e sul Portale dell’ebraismo italiano www.moked.it solleva molti interrogativi e pone questioni complesse. Non sarà certo casuale il rinvio alla parola teshuvà e al suo significato non solo di «ritorno», ma anche di «risposta». Una delle domande che attraversano il testo, in cui non manca il richiamo alle fratture nel mondo ebraico, è quella sulla difficoltà di «essere ebrei»Questa domanda, che ha costituito nei secoli un pungolo incessante per il pensiero ebraico, ha assunto accenti inediti nel Novecento, dopo la Shoah e dopo la fondazione dello Stato di Israele. Ma non si deve neppure sottovalutare quel che è avvenuto nell’ultimo decennio sotto l’effetto della globalizzazione. L’ebreo occidentale non solo non può più fare a meno della scienza, della tecnologia, dell’arte, della democrazia, dei diritti umani, ma rivendica la civiltà occidentale. E la rivendica giustamente, sia per l’apporto di questa civiltà alla vita ebraica, sia per il contributo decisivo della vita ebraica alla civiltà occidentale. Alla fine della modernità, mentre si va compiendo il travagliato passaggio a Occidente, a cui davvero solo pochi settori del modo ebraico si sottraggono, si apre allora una grande questione: com’è possibile non rinunciare ai valori occidentali senza abdicare all’ebraismo? La questione è dunque quella che riguarda il modo di intendere e di vivere l’identità ebraica.
Nel dibattito filosofico contemporaneo la frattura che nel mondo ebraico si estende da Israele, attraverso l’Europa, fino agli Stati Uniti, non è vista come una disputa partigiana. La linea di frattura, che non contrappone necessariamente i laici ai religiosi, definisce due strategie dell’esistenza ebraica.
Un polo è costituito dall’ebreo illuminato, pronto a sacrificare il proprio sé sull’altare dell’universale, aspirando ad una identità puramente «umana», mentre quella ebraica riemerge nella lotta contro l’antisemitismo. Jean-Paul Sartre aveva già colto questo fenomeno quando aveva affermato che l’«ebreo autentico» scomparirà quando si sarà estinto l’antisemitismo. È evidente che in questa strategia le lettere quadrate appaiono una restrizione della visione offerta dai lumi e che l’ebraismo è subito come un particolarismo che, soprattutto se letto in termini religiosi, diventa una minaccia per l’autonomia e la libertà del soggetto
L’altro polo è costituito da quello che Shmuel Trigano ha chiamato il «campo della nazione». È l’ebreo eroicamente solo contro tutti che, concentrato su di sé, abbandona qualsiasi preoccupazione per l’altro. L’ebreo militante e combattente, che accusa spesso gli altri ebrei di tradimento, come se non avessero altrettanto a cuore le sorti di Israele, costruisce la propria identità sulla difesa dello Stato di Israele, prendendo dunque una pericolosa scorciatoia identitaria. Perché la difesa, replicata quasi ogni giorno, piega non solo l’ebraismo all’economia spicciola della politica, ma diventa un alibi. Non solo un alibi per aggirare il problema della secolarizzazione, ma anche per convivere con un ebraismo che può essere anche svuotato di contenuti.Quel che è comune alle due strategie è che in entrambe l’ebraismo è difeso come un vestigio del passato, non come forza propositiva e creativa. Mentre resta fuori da queste due strategie, che hanno segnato la storia recente, l’ebraismo risorge sulla scena contemporanea in tutta la sua effervescenza. Situazione paradossale che invita a riflettere. È un residuo arcaico e ingombrante che la modernità non ha assimilato? Oppure è il resto di quella verità trasmessa dialogicamente nella tradizione ebraica che ha oggi molto da dire, che bisogna perciò leggere, studiare e interpretare per far parlare?La frattura del mondo ebraico

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