Dentro la logica nucleare iraniana di Gareth Evans


L’Iran è davvero deciso a diventare una potenza nucleare, o si accontenterà di avere semplicemente le capacità potenziali di costruire armi nucleari? Conta, in ogni caso, la differenza?
Poche questioni internazionali hanno una posta in gioco più alta. Il pericolo più immediato, se si vuol far prevalere un’interpretazione pessimista delle intenzioni iraniane, riguarda un attacco preventivo israeliano, che trascinerebbe in guerra tutto il Medio Oriente, con conseguenze catastrofiche per l’economia globale.
Nessuno dovrebbe sottovalutare quanto sia difficile stabilire quali siano le vere intenzioni iraniane. Non aiutano i segnali contrastanti forniti da centri di potere antagonisti, o la contraddizione fra le stridenti dichiarazioni pubbliche e la moderazione privata dei rappresentanti iraniani. Scettici e pessimisti hanno, inoltre, molti esempi per dimostrare l’ostruzionismo e la spregiudicatezza iraniana nell’argomentare la pur legittima questione internazionale dei suoi programmi nucleari.
Detto questo, troppi politici e commentatori hanno dato un giudizio affrettato, insistendo che l’Iran è irrevocabilmente determinato a costruire armi nucleari, o almeno che vuole una ugualmente pericolosa capacità potenziale di deterrenza.
Ci sono infatti buone ragioni per credere che la situazione non sia così pericolosa, ma invece più contenibile di come viene percepita. Ammettendo che un compromesso accettabile per l’Iran e la comunità internazionale sarebbe estremamente difficile da raggiungere, esso è comunque possibile.
Non si deve scavare a fondo per capire le ragioni che spingono l’Iran a mettere alla prova i limiti della tolleranza internazionale: redimere le umiliazioni subite a partire dall’era di Mossadeq; dimostrare la superiorità tecnologica alla regione mediorientale e al mondo; spiegare senza mezzi termini alle potenze occidentali – che con la loro politica del doppio standard abbandonarono l’Iran alle armi chimiche di Saddam Hussein alla fine degli anni ‘80 – che Teheran non abdicherà al proprio “diritto” di arricchire l’uranio nel rispetto del Trattato di Non Proliferazione (TNP).
Per contro, non è facile per gli osservatori esterni capire perché l’Iran si asterrebbe dal produrre armi nucleari pur avendone la capacità. Ma in molte delle mie discussioni confidenziali con alti funzionari in Iran e altrove negli anni scorsi, ho avuto modo di ascoltare esplicitamente e ripetutamente cinque ragioni a giustificazione di ciò, ed esse meritano di essere prese sul serio.
La prima è la preoccupazione che Israele possa interpretare l’esistenza di una o due bombe iraniane come una minaccia alla sua stessa sopravvivenza, meritevole di un attacco preventivo – con o senza l’appoggio statunitense, ma in entrambi i casi con mezzi che l’Iran sa di non poter contrastare. Gli iraniani ritengono che una tale offensiva sia improbabile finché l’Iran non supererà la soglia della produzione effettiva di tali armiIn secondo luogo è universalmente accettato che non c’è alcuna tolleranza in Russia o in Cina per una bomba iraniana, e che tutta l’accondiscendenza che queste potenze hanno mostrato all’Iran nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si esaurirà se l’Iran procederà con la produzione di armi nucleari. Questa posizione è stata evidenziata dai più recenti negoziati relativi alle sanzioni.
La terza ragione è che, per questo motivo,  in Iran c’è un’inequivocabile consapevolezza che l’acquisizione di una bomba provocherebbe delle sanzioni economiche paralizzanti. Le sanzioni finanziarie, dirette e indirette, stanno già avendo effetto – anche sulla Guardia Rivoluzionaria ed i suoi principali interessi economici – ma sono tollerabili di fronte alla volontà di affermare il diritto iraniano di arricchire l’uranio nel rispetto del TNP. Una volta che sia palese un’evidente violazione del TNP, la partecipazione universale a un regime di sanzioni ancora più dure è vista come inevitabile.
La quarta ragione è che gli Iraniani riconoscono che qualsiasi egemonia regionale acquistata con la minaccia di armi nucleari sarebbe di breve durata. C’è scetticismo riguardo alle capacità egiziane, saudite o turche di iniziare un programma di armamento nucleare per conto proprio, e si ritiene che ci sia molta pressione internazionale, specialmente da parte degli Stati Uniti, affinché non si vada in quella direzione. Ma è anche chiara l’idea che attriti arabo-persiani, sunnito-sciiti, o più immediate tensioni fra potenze regionali, renderebbero una corsa agli armamenti inevitabile.
Infine c’è una motivazione religiosa: le armi di distruzione di massa molto semplicemente violano i precetti dell’Islam. Poche persone, nei paesi occidentali, troverebbero questa ragione molto convincente, ma essa è ritornata in ogni conversazione che ho avuto modo di tenere con rappresentanti iraniani, di rango elevato o no. E questa posizione non è senza fondamento: quando il regime di Saddam ha bombardato l’Iran usando armi chimiche, Teheran, dopotutto, non ha reagito con lo stesso tipo di armi.

Niente di tutto questo dovrebbe suggerire che le intenzioni iraniane vadano prese “sulla fiducia”. C’è troppa “Storia” e ci sono troppi motivi di sospetto perché ci si possa fidare. Qualsiasi accordo che includa la fine delle sanzioni e dell’isolamento diplomatico dovrebbe essere accompagnato da un monitoraggio intrusivo, ispezioni e accordi di verifica, che coprano non solo tutti i livelli più delicati del ciclo di produzione del combustibile nucleare, ma anche ogni eventuale programma bellico o impianto ingegneristico sospetti. La comunità internazionale vuole la certezza che ci sia sufficiente anticipo – 12 mesi circa – per rispondere ad ogni eventuale prova di un reale intento di procedere verso la produzione effettiva di armi atomiche.
Continueranno a esserci le solite frustrazioni, come quelle dell’anno passato per il fallimento degli sforzi creativi di alcuni membri del Consiglio di Sicurezza – e più recentemente del Brasile e la Turchia – per trovare soluzioni ad interim, in gran parte a causa del rifiuto, da parte dei capi del movimento democratico dell’anno scorso, di sostenere il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, incline ad un compromesso. Ma ci sono, nonostante tutto,  solide basi per mantenere la porta aperta alla diplomazia.
L’Iran è un paese straordinariamente complesso. Ma, se non possiamo permetterci di sottovalutare le forze dell’estremismo che persistono nel paese, è però a nostro rischio e pericolo rifiutare di capire a fondo le correnti moderate e di buon senso che vi scorrono, anche nei circoli politici più elevati.

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