Lettera a Martin Buber di hans Khon: sul sionismo



Tag: 1948: brutti ricordi
continua qui"Agli albori di Israele – una riflessione sul sionismo" di Hans Kohn


Negli ultimi tempi mi sono reso conto sempre più che la politica ufficiale dell'organizzazione sionista e gli in­tenti della stragrande maggioranza dei sionisti non possono essere assolutamente conciliati con le mie convinzioni e che di conseguenza non posso più ricoprire un incarico direttivo all'interno dell'organizzazione. Il sionismo che io ho soste­nuto a partire dal 1909 non è mai stato un sionismo politico. Io e un gruppo di amici vedemmo nel sionismo un movi­mento etico-spirituale nel cui ambito possiamo realizzare le nostre convinzioni umane, il nostro pacifismo, liberalismo e umanismo. Ci è stato spesso obiettato che entro i popoli europei non possiamo farci assoluti sostenitori del pacifismo o di una politica etica perché saremmo visti come un popolo estraneo, come traditori. Sion doveva essere il luogo di rea­lizzazione delle nostre aspirazioni umane.
Da tutto ciò la realtà del movimento sionista e dell'inse­diamento ebraico in Palestina è molto lontana. Lei sa che da anni all'interno del movimento sionista ho combattuto a fa­vore di quelle idee che erano per me fin dall'inizio sinonimi del sionismo. Esse mi si cristallizzarono più tardi in ciò che si designa come “problema arabo”. Qui risiedeva per me il banco di prova del sionismo. Non a partire da una qualche simpatia per gli arabi o da una qualche valutazione positi­va delle loro qualità. Si trattava e si tratta per me non degli arabi, ma degli ebrei, del loro ebraismo e della loro confer­ma umana. Qui l'organizzazione sionista, come mi diventò sempre più evidente, ha fallito completamente. L'esperienza decisiva fu l'insurrezione nazionale araba dell'agosto 1929.
Avvenimenti del genere hanno sempre un effetto chia­rificatore e costringono a decisioni di cui “in tempi norma­li” certo riconosciamo il bisogno, ma della cui urgenza non sappiamo.
Vi era ancora una possibilità di svolta nella crisi, di un nuovo atteggiamento - proveniente da una scossa - per una messa in discussione dei fondamenti morali e spirituali del sionismo e una ricerca di una nuova risposta. Essa non si è realizzata.


Per la grande maggioranza dei sionisti si rafforzò quella via che io non posso percorrere. Per le poche persone che pensano come me, si imponeva una chiara e onesta decisione.
Io sono come ebreo e come uomo - come uomo ebreo, ciò che so in me indisgiungibile e indicante una direzione - pacifista, anti-imperialista, quello che in America si defi­nisce un radicale. Metto in evidenza solo questi tre punti che sono stati messi in discussione dalla politica sionista ufficia­le. Non posso partecipare se il movimento nazionale arabo viene rappresentato come se fosse nient'altro che un'agita­zione criminale di alcuni grandi proprietari terrieri.
So bene che innumerevoli volte la stessa immagine è sta­ta data da parte della stampa reazionaria imperialistica in Inghilterra e Francia contro i movimenti nazionali in India, Egitto, Cina, in breve, in tutti quei luoghi dove i movimenti nazionali di popoli oppressi minacciano di mettere in peri­colo gli interessi del potere coloniale. So bene quanto falsa e bugiarda fosse questa immagine. Non posso certo seguirla, se si tratta della causa di un popolo che considero con piena coscienza un popolo eletto, del futuro di un movimento che riesco a concepire soltanto se si basa su fondamenti etici. I mezzi determinano il fine. Se i mezzi sono bugie e violenza, il risultato non può essere buono.
Noi ci poniamo come innocenti che sono stati assaliti. Non vi è dubbio che ad agosto gli arabi ci hanno aggredito. Poiché non dispongono di nessun corpo armato, non pote­vano neanche attenersi a regole militari. Hanno compiuto tutti gli atti barbarici che sono propri delle rivolte coloniali. Ma noi siamo obbligati a considerare le cause più profon­de. Noi siamo da dodici anni in Palestina senza aver fatto neanche una volta il tentativo di affaticarci per il consenso del popolo, per trattare con il popolo che abita nel paese. Ci siamo affidati esclusivamente alla forza militare della Gran Bretagna. Ci siamo posti obiettivi che necessariamente e in se stessi avrebbero condotto a conflitti con gli arabi, e dei quali dovevamo dirci che sono motivo, e giustificato motivo, di una rivolta nazionale contro di noi. Non avremmo dovuto farci costringere al Libro Bianco del 1922 dall'esterno, ma avremmo dovuto svilupparlo come nostra propria ideologia. Quando siamo arrivati nel paese, era nostro dovere arrivare con proposte di costituzione che senza grande danno, anzi negazione dei diritti e libertà arabi, ci avrebbero permesso un libero sviluppo culturale e sociale. Invece per dodici anni abbiamo agito come se gli arabi non esistessero e ci ralle­gravamo quando non ci veniva ricordata la loro esistenza.
Dopo la rivolta il movimento nazionale arabo è riuscito a organizzarsi per la prima volta in modo ampio e a coinvol­gere l'intero popolo. Nostro dovere sarebbe stato quello di porre termine alla guerra aperta, soffocata solo dall'esercito britannico, nel modo più rapido possibile con proposte di pace, e non fare tutti i possibili sotterfugi. Abbiamo dichiarato, esattamente come le potenze nella guerra mondiale, che siamo disposti ad una pace soltanto se siamo sufficien­temente forti. Ovvero, come le potenze nella guerra mondia­le, aspiriamo a una pace dei vincitori, una pace in cui l'av­versario fa quello che noi vogliamo. Naturalmente ognuno desidera la pace, supposto che possa avere ciò che ritiene essenziale per se stesso. E su questo è il popolo a decidere che cosa sia essenziale per sé, non una istanza più alta o una coscienza più elevata. In questo modo la guerra può prose­guire a lungo. Contro questo atteggiamento delle potenze nella guerra mondiale, contro questa intenzione sono insorti i veri pacifisti. Mi rallegrerei se anche tra noi ce ne fossero. Sarebbe bene se gli ebrei dimostrassero nella propria causa quel coraggio che, ad esempio, hanno dimostrato i pacifisti inglesi nella guerra mondiale.
Ogni rinvio di un accordo di pace non rende la pace più possibile ma ingrandisce sempre di più la distanza fra i due popoli. Il movimento nazionale arabo cresce e crescerà. Un accordo con esso diverrà in breve tempo molto più difficile che oggi, anche se dovessimo essere nel paese di più di alcu­ne decine di migliaia. Credo sia possibile per noi rimanere ancora a lungo e crescere in Palestina con l'aiuto inglese e più tardi con l'aiuto delle nostre baionette, che chiamiamo vergognosamente Haganah, poiché non abbiamo il coraggio di una nostra propria politica. Non potremo mai allora fare a meno delle baionette. Il mezzo avrà determinato il fine. La Palestina ebraica non avrà nulla di quel Sion per cui io vi sono arrivato. Oggi ancora possiamo giungere a un accordo con gli arabi, il quale assicuri la pace. [...]
Questa lettera è indirizzata solo a Lei. Non richiede al­cuna risposta. Si tratta di questioni alle quali ognuno deve rispondere a partire dalle decisioni ultime del proprio essere e può rispondere soltanto per se stesso. Con la mia uscita dal Keren Hayesod si chiude un’epoca della mia vita. Venti anni esclusivamente di attività sionista, di cui dieci nel Keren Hayesod, non sono pochi nella vita di un uomo. Di una tale svolta si deve rendere conto a se stessi e ai propri amici. Sul cammino che ho percorso fin qui, ho scritto sopra. Della strada che mi attende so ancora ben poco. Le vecchie logore vie di politica nazionale percorse nel diciannovesimo secolo dalle potenze europee e dai popoli orientali nel ventesimo secolo, e che ora il popolo ebraico insegue, non sono più praticabili. Dobbiamo cercare altri, nuovi cammini. A volte nutro ancora l'orgogliosa speranza che gli ebrei, gli ebrei consapevoli del loro popolo, possano essere l'avanguardia in questi nuovi cammini. [...]
Con i più cordiali auguri e saluti
Suo
Hans Kohn

[Hans Kohn nacque a Praga nel 1891. Allievo ed amico di Martin Buber, entrò nell’organizzazione sionista “Bar Kochba” nel 1908. Fu catturato dai russi nella prima guerra mondiale e tenuto prigioniero per cinque anni. Al suo ritorno lavorò attivamente nelle organizzazioni sioniste tra Parigi e Londra fino al 1925, anno in cui si trasferì in Palestina come dirigente del Keren Hayesod, “il braccio finanziario della World Zionist Organization”. Il testo che riportiamo è una lettera di Kohn a Buber scritta in seguito alle rivolte arabe del 1929 e alla delusione di Kohn maturata di fonte al comportamento dei sionisti in Palestina. L’intero brano è tratto dalle pg 131-135 della recentissima edizione italiana di “Martin Buber – Una terra e due popoli” (La Giuntina 2008), traduzione della raccolta “Ein Land und zwei Völker. Zur jüdisch-arabischen Frage” (Insel Verlag 1983) a cura di Paul Mendes-Flohr. I curatori di questa prima edizione italiana sono Irene Kajon e Paolo Piccolella. Non è mai stata rinvenuta una risposta di Buber, anche se all’epoca dell’edizione originale (1983) gli archivi Kohn erano ancora inaccessibili (lo sono stati fino al 1990) per disposizione testamentaria.]
http://othersideofisrael.blogspot.com/2008/02/agli-albori-di-israele-una-riflessione.html

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