Jeff Halper per icahd : Israele e l'apartheid


Sabato 01 Agosto 2009 09:26 Jeff Halper
25 maggio 2009
 Dopo il suo incontro con il Presidente Obama il Primo Ministro di Israele Netanyahu avrebbe pronunciato le magiche parole “due stati”?
Tutta Israele stava con il fiato sospeso, ma lui non l'ha fatto. La distanza fra i due comunque è tanta che neppure quelle parole l'avrebbero potuta colmare. Obama è alla ricerca -io ritengo sinceramente, forse urgentemente- di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, che egli comprende essere una pre-condizione per andare avanti su questioni mediorientali più grandi e pressanti. Netanyahu, che rifiuta persino l'idea di quel mini-stato palestinese a malincuore accettato da Barak, Sharon e Olmert, persegue uno stato permanente di “immagazzinamento” in cui i Palestinesi vivano eternamente in un limbo di “autonomia” definito da un Israele che li racchiuda e li controlli. Il pericolo, di cui dovremmo essere tutti consapevoli, è che le due parti si possano accordare sull'apartheid – l'istituzione di un bantustan palestinese che non possieda né una vera sovranità né l'autosufficienza economica.

Da parte sua, sembra che Obama sia consapevole del forte legame fra il conflitto israelo-palestinese e l'ostilità verso l'Occidente così diffusa nel mondo islamico. La sua amministrazione è stata esplicita sulla necessità di fare progressi in Palestina per trattare il tema del nucleare iraniano, e la sua abilità di ritirarsi dall'Iraq, stabilizzare l'Afghanistan e il Pakistan e di affrontare la sfida che l'Islam politico rivolge agli stati arabi “moderati” dipende anche, in misura significativa, dalla creazione di una nuova relazione con il mondo musulmano, che non si può ottenere senza porre fine alla Occupazione israeliana.

Netanyahu ed il suo Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman hanno già presentato le linee della loro nuova “ricontestualizzazione” del conflitto:
  • la minaccia iraniana è prioritaria, unisce gli USA e Israele in una alleanza strategica e rende marginale la questione palestinese;
  • slogan (come li definisce Lieberman) quali occupazione, colonie, coloni, terra in cambio di pace e persino la “semplicistica” soluzione dei due stati devono essere abbandonati per favorire il “processo” secondo un nuovo slogan: “economia, sicurezza, stabilità” - che significa migliorare l'economia palestinese e nel contempo garantire la sicurezza di Israele. Ne risulterebbe una stabilità (Lieberman cita a modello la situazione “stabile” fra le popolazioni greca e turca di Cipro sotto l'occupazione turca) che in qualche modo faciliterà qualche vago futuro processo di pace;
  • Israele continuerà ad espandere i suoi “fatti compiuti”. Proprio il giorno prima dell'incontro Netanyahu-Obama era stata annunciata la costruzione di una nuova colonia: Maskiot, nella Valle del Giordano, il primo insediamento in 26 anni. Due giorni dopo il ritorno da Washington, Netanyahu inoltre ha dichiarato: “la capitale di Israele è Gerusalemme. Gerusalemme è sempre stata nostra e sempre lo sarà. Non verrà mai più frazionata e divisa.” L'annuncio aggiungeva che si continuerà a costruire all'interno dei “blocchi degli insediamenti”. Giusto un mese prima, il giorno che Hillary Clinton e George Mitchell dovevano arrivare nel Paese, il governo israeliano aveva annunciato che avrebbe eseguito imponenti demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme. Questo approccio di aperta sfida segnala all'Amministrazione USA che Israele non intende accettare dictat, come si esprime il Ministro per gli Affari Strategici Moshe Ya'alon, e vuole testare quanto sarà disposto a fare sul serio Obama.
  • Sia gli USA sia Israele sollecitano un maggior coinvolgimento degli stati arabi nel processo di pace, ma anche di questa questione Israele ha una sua visione particolare. Mentre gli USA stanno elaborando un approccio globale alla pace e stabilità dell'intera regione mediorientale (quella che il re Abdullah di Giordania chiama la “soluzione dei 57 stati” per cui l'intero mondo arabo e musulmano riconoscerebbe Israele in cambio della fine dell'occupazione), la formula israeliana di anteporre la “pace economica” a qualsiasi accordo di pace politicamente definito cerca di creare uno stato di normalizzazione fra Israele ed il mondo arabo-musulmano che relegherebbe per un tempo indefinito la questione palestinese in secondo piano. Considerati i trascorsi dei cosiddetti stati arabi “moderati” e l'ostilità che essi, come Israele, nutrono contro una maggiore influenza dell'Iran, un loro coinvolgimento non promette necessariamente bene per i Palestinesi.

E poi ci sono tutti i meccanismi per ritardare o minacciare i negoziati:
  • creare insormontabili ostacoli politici, come la richiesta che i Palestinesi riconoscano Israele come “stato ebraico”. Netanyahu sa bene che i Palestinesi non l'accoglieranno. Tale riconoscimento pregiudicherebbe lo status di uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele, un buon 20% della popolazione israeliana. Esso aprirebbe anche la strada per un'ulteriore pulizia etnica (“trasferimento” secondo il gergo israeliano). Quando era Ministro degli Esteri, Tzipi Livni aveva affermato con chiarezza che il futuro dei cittadini arabi-israeliani sta in un futuro stato palestinese, non certo in Israele. E non dimentichiamoci che l'anno scorso il Parlamento israeliano ha approvato una legge che richiede la maggioranza dei due terzi, il che equivale ad una soglia impossibile da raggiungere, per approvare qualsiasi cambiamento nello status di Gerusalemme. Su altre questioni, quali lo smantellamento degli insediamenti o la ratifica di qualsiasi accordo di pace, si approveranno, con il sostegno del governo, leggi dello stesso tipo.
  • Ritardare l'applicazione. OK, dice il governo israeliano, negoziamo, ma l'applicazione di ogni accordo sarà subordinata alla completa cessazione di qualsiasi resistenza da parte dei Palestinesi. “Sicurezza prima della pace” è il modo di esprimersi del governo israeliano. Dal momento, però, che non vi è mai stato alcun indizio che Israele darebbe il suo consenso ad uno stato palestinese autosufficiente, e poichè Israele considera qualsiasi forma di resistenza, sia armata sia nonviolenta, come una forma di terrorismo, “sicurezza prima della pace” in realtà significa “fermate ogni resistenza e può darsi che avrete uno stato.” L'inghippo qui è che se i Palestinesi cessano la loro resistenza, essi sono perduti. Senza la pressione palestinese, Israele e la comunità internazionale rimarrebbero senza alcuna motivazione per fare le concessioni necessarie ad una vera soluzione. Ed anche se si raggiungerà un accordo, “sicurezza prima della pace” significa che esso non verrà attuato finchè Israele non deciderà unilateralmente che le condizioni sono mature. Questo cosiddetto “accordo a palchi” continua ad erigere altri ostacoli insormontabili davanti a qualsiasi processo di pace.
  • Proclamare uno stato palestinese “di transizione”. Se tutto il resto fallirà – dato che un vero negoziato con i Palestinesi o la fine dell'Occupazione sono fuori questione- gli USA, su lascito israeliano, possono riuscire a saltare la fase 1 della Road Map e passare direttamente alla fase 2, che richiede la proclamazione di uno stato “transitorio” palestinese prima della definizione dei suoi effettivi confini, territorio e sovranità. Questo è l'incubo dei Palestinesi: venire rinchiusi per un tempo indefinito nel limbo di uno stato “transitorio”. Per Israele invece questa è la soluzione ideale, in quanto offre la possibilità di imporre i confini e di espandersi nelle aree palestinesi mostrando però nel contempo di rispettare il cammino della Road Map.
Inutile dire che tutto ciò serve ad evitare una vera soluzione a due stati, idea che suona semplicemente come un'anatema per il governo a guida Likud. Più di un decennio fa Netanyahu aveva enunciato la sua visione di auto-determinazione per i Palestinesi: una via di mezzo fra “meno-di-stato e più-di-autonomia”. Il termine migliore, per quanto squallido, per definire ciò che Israele ha in serbo per i Palestinesi è immagazzinamento, uno stato permanente di controllo e soppressione in cui le vittime scompaiono dalla vista e la loro situazione, spogliata di qualsiasi contenuto politico, diviene una non-questione.
Per quanto l'Amministrazione Obama possa autenticamente desiderare una soluzione basata su due stati autosufficienti e possa capire persino tutti i trucchi di Israele, è pure chiaro che senza una pressione significativa essa non potrà realizzarsi. Ed ecco dove sorge il vero problema. L'asso nella manica di Israele è sempre stato il Congresso USA, dove gode praticamente di un unanime sostegno bipartisan. E lo stesso Partito Democratico di Obama, che ha ricevuto quasi l'80% dei voti degli Ebrei statunitensi, è sempre stato molto più “proisraeliano” di quello Repubblicano. Potrebbe anche darsi che, per quanto Obama e Mitchell cerchino di indirizzare la politica americana in modo nuovo, più assertivo, i leader del suo partito si tirino indietro, per timore di non essere rieletti.
In questo caso, il compromesso fra il desiderio di risolvere il conflitto e l'incapacità di indurre israele a ritirarsi dai Territori Occupati in modo da fare emergere uno Stato palestinese autosufficiente potrebbe anche tradursi in una forma di apartheid. La differenza fra uno Stato palestinese autosufficiente ed un Bantustan è questione di dettagli. Ci sono già segni che l'Amministrazione Obama autorizzerà Israele a conservare i principali blocchi di colonie, compresa una “Grande Gerusalemme”, ed impedirà ai Palestinesi di ottenere la sovranità sui confini con gli Stati arabi vicini. Poichè solo una minoranza è in grado di comprendere appieno il significato cruciale di tali dettagli, Israele è convinta di potere disegnare con diplomazia una situazione di apartheid spacciandola per una soluzione a due stati. Nel corso degli ultimi decenni il lavoro della società civile è stato quello di costringere i governi ad adempiere alle proprie responsabilità ed iniziare un processo politico che porti effettivamente ad una pace giusta fra Israeliani e Palestinesi. Ora che questo processo si avvicina, il nostro compito è di fare in modo che sia un processo onesto.



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