"Grossman e il '67: la guerra ci ha avvelenati"


Aveva 12 anni, il 10 giugno 1967. Era l'anno del suo Bar Mitzvah. «Li ricordo benissimo, quei giorni.Ricordo nettissima la paura, il pensiero terrorizzante che sarei morto». Aveva la radio, David Grossman, la girava di notte sui servizi in ebraico di un'emittente del Cairo che promettevano a Israele «di stuprare le donne, di gettare a mare gli uomini. E io ero un bambino, e non sapevo nuotare». Così David Grossman racconta a Gad Lerner il suo ricordo della Guerra dei sei giorni, a 40 anni dalla sua fine. C'è un pubblico numerosissimo, gente tenuta fuori dal teatro dai vigili, a sentire a Casale Monferrato, al festival di cultura ebraica OyOyOy, la voce più autorevole della sinistra israeliana. «Per questo, quando i nostri caccia hanno sconfitto l'aviazione di Egitto, Iraq, Siria, Libano e Giordania, io ho pensato a un miracolo: eravamo stati salvati da un'esecuzione». Ora è quel miracolo, quel sentirsi salvati che è per Grossman, per l'«ateo» Grossman, anche l'eredità più complicata della vittoria israeliana del 1967.«Questo sentimento ha prodotto un'ondata di messianismo, religioso e politico. Molti hanno scorto il segnale che era giusto occupare la terra dei palestinesi». E c'è un secondo, radicale, cambiamento che quella guerra ha prodotto: «Israele ha scoperto la tentazione del potere, il suo sapore dolcissimo. Meglio, del potere arbitrario sulle vite degli altri». Difficile resistere. «E noi ci siamo rimasti intrappolati. Quella guerra non è finita neppure 40 anni dopo, noi e i palestinesi continuiamo a mangiarne i frutti avvelenati». Oggi, dice, la situazione è ancora più «senza speranza». Con Israele paralizzata, senza la forza di spingere per la soluzione dei due Stati. La minaccia di una guerra con la Siria dice Grossman che potrebbe scoppiare in estate, la «retorica machista che si autoavvera», per l'assoluta assenza d'iniziativa e di coraggio politico dei leader.L'Iran. E «la patria dell'ebraismo anche per la diaspora» che ancora non ha confini, come una casa con pareti mobili, 60 anni dopo la fondazione. «Dobbiamo chiederci cosa abbiamo noi ebrei che ci costringe a vivere così, minacciati di sradicamento anche in Israele». Gli dispiace che lo si faccia sempre parlare di politica, «soprattutto in Italia». Per sé sceglie la letteratura, l'unica che gli permetta di uscire dalla condizione di «nemico». Di ribellarsi alla condizione di vittime impotenti di un mondo come nel suo prediletto Kafka sempre più angusto.

Corriere della Sera, 11/06/2007


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