Intervista a A.B. Yehoshua Altro che cancellare la Nakba. Con i palestinesi noi israeliani abbiamo un debito eterno
La nostra conversazione ha inizio con un ritorno indietro nel tempo. E prende corpo da una considerazione che Abraham Bet Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani contemporanei, svolge in uno dei suoi primi libri pubblicati in Italia: “Elogio della normalità” (La Giuntina, Firenze, 1991):
«Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda da cui ogni popolo può essere affetto e in quanto portatori di anticorpi dobbiamo innanzitutto curare il rapporto con noi stessi. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra».Chi ha molto sofferto – rileva Yehoshua – «può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto al di là delle azioni turpi nei nostri confronti non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale, bisogna compiere degli atti morali e per questo affrontiamo degli esami quotidiani
»Una riflessione che Yehoshua ha sempre posto al centro del suo impegno intellettuale e politico. E che lo porta oggi a dire che «Negare l’identità dell’altro da sé è una prova di debolezza oltre che d’ingiustizia». Tanto più ora che una legge cancella la Nabka, la «catastrofe» che per gli arabi fu la nascita dello stato di Israele.Il tema di questo colloquio è l’identità. Quella d’Israele e quella palestinese. Tempo fa, lei fu tra gli intellettuali che sottoscrissero una lettera aperta in cui si chiedeva a Israele, alla sua leadership politica, il coraggio di riconoscere le sofferenze inflitte ai palestinesi. Quell’appello è ancora attuale«Direi proprio di sì. E la ragione non va ricercata in un astratto senso di giustizia o di umana “pietas”. Essa affonda nel profondo della nostra identità. Per chi, come me, pensa che il sionismo è stato un ideale morale e per ciò stesso coronato dal successo, che ha portato gli ebrei da uno stato di alienazione e di dipendenza, risultato nell’odio antisemita e nella Shoah, a una piena responsabilità sul proprio destino, deve capire che gli israeliani avranno un debito morale eterno nei confronti dei palestinesi che sono stati costretti a cedere una parte della loro terra in favore del sionismoQuesto debito morale forse non potrà mai essere compensato adeguatamente in termini territoriali, ma può essere risarcito mediante altre forme di riparazione, soprattutto mostrando grande tolleranza nei confronti di coloro che hanno dovuto pagare tanto caramente il prezzo della convivenza con gli ebrei nella patria comune. È un atto di coraggio collettivo quello che chiedo a noi israeliani, sapendo che accettare di non essere le sole vittime è più difficile che lasciare i Territori»Riconoscere l’altro da sé, la sua identità, la sua storia, è dunque un passaggio cruciale per una pace davvero condivisa?«È un banco di prova decisivo. Per tutti. Quello a cui penso è un riconoscimento reciproco che sia qualcosa di più profondo, meditato, nobile, della presa d’atto del fatto che noi israeliani e i palestinesi siamo “condannati” a vivere gli uni a fianco degli altri. Ciò vale per il riconoscimento delle rispettive identità nazionali come per un altro aspetto non meno importante e che è tornato in queste settimane alla ribalta per alcune testimonianze scioccanti di soldati impegnati nelle operazioni militari a Gaza»Lei si riferisce alle denunce del gruppo Breaking the Silence” (Rompere il silenzio)«Sì, a quelle. Ciò che mi preme sottolineare è una verità fondamentale che sottende questa drammatica vicenda….».«Ogni comportamento che adottiamo nei confronti del “nemico” finisce per permeare anche la nostra esistenza, le relazioni interne a Israele: se tutto diventa lecito contro il “nemico”, se la cifra della nostra esistenza è quella della forza, questa “legge” non scritta ma praticata insidierà anche i rapporti tra israeliani, si propagherà all’interno, tenderà a legittimare comportamenti violenti, condotte non consone ad un Paese che rivendica con orgoglio e ragione la sua democrazia. E il terribile, sconvolgente attacco al circolo gay di Tel Aviv ne è una drammatica riprova. Il fanatismo, l’intolleranza, sono nemici mortali di ogni consesso civile. Una democrazia non deve mai aver paura della verità, anche la più scomoda, né può autosospendersi in nome di una sicurezza minacciata».
A quale conclusione politica conduce questa riflessione?
Alla conclusione che la pace, che passa necessariamente attraverso la separazione di due popoli in due Stati, non è una concessione fatta ai palestinesi ma è un’esigenza vitale per un Paese, Israele, che intende preservare i sue due caratteri fondanti: l’identità ebraica e la democrazia. Ed è in questo contesto, che diviene fondamentale il tema dei confini».
Perché fondamentale?
«Perché la mancanza i confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. Ed anche perché definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nel fare d’Israele un Paese normale. La conquista della normalità: è il sogno da realizzare, l’approdo finale, la conquista di una vita, il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari – come lo è ogni popolo – senza preoccuparci di perdere l’identità». Umberto De Giovannangeli per “L’Unità”(anno 2009) allegato1948:brutti ricordi
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