Henry Siegman Hamas non è il vero problema

Con coraggio e ripetutamente Haaretz ha svelato la scaltrezza del pretesto usato dall’attuale, come pure dal precedente governo, secondo il quale il loro obiettivo era quello di trovare per la pace una controparte palestinese affidabile. E’ quindi importante guardarsi dai risvolti della questione – se Israele dovesse coinvolgere Hamas nei colloqui di pace – accampata in teoria, secondo la quale cioè i governi israeliani avrebbero avuto interesse a svolgere colloqui di pace se solo essi avessero potuto trovare una controparte disponibile. Molto spesso, quando si è presentata l’occasione di una scelta tra la pace e il dare continuità al processo di esproprio da parte di Israele del territorio palestinese, i governi israeliani hanno sempre preferito la terra alla pace. Infatti, un presidente americano che manifesta cenni tra i più flebili di voler riprendere sul serio il processo di rappacificazione, viene sospettato immediatamente – non solo dai governi israeliani, ma anche dalla popolazione d’Israele – di ragioni anti-israeliane, se non addirittura anti-semitiche.I governi israeliani hanno evitato di trattare con Hamas non perché essi avessero paura che, prendendovi parte, l’organizzazione potrebbe non rendere possibile il raggiungimento di un accordo di pace, ma perché essi sapevano di non essere in grado di influenzare Hamas allo stesso modo con cui erano stati capaci di raggirare il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas – cioè, utilizzando colloqui di pace privi di contenuto come foglia di fico per un’espansione continua dell’iniziativa relativa alle colonie. I governi israeliani si sono attaccati ad Abbas, scelto come loro controparte per la pace non a causa della sua “moderazione” – le condizioni da lui poste ad un accordo di pace non sono molto diverse da quelle di Hamas (dopo tutto, Hamas ha accettato che Abbas potesse portare avanti i colloqui di pace a nome di un governo di unità nazionale) – ma in quanto i negoziati con Abbas facevano loro da schermo nei confronti della necessità di dover trattare con Hamas, mentre consentivano loro al tempo stesso di dichiarare che lui non era in grado di esprimere l’appoggio popolare al compromesso che era necessario compiere. E’ il tipico caso dell’avere la botte piena e la moglie ubriaca.Se un governo israeliano fosse stato veramente interessato al raggiungimento di un accordo di pace che avesse posto fine all’occupazione permesso la costituzione di uno stato palestinese in grado di sopravvivere, lo si sarebbe potuto fare solo con un governo che comprendesse entrambi i maggiori partiti politici palestinesi, Hamas e Fatah. E’ proprio perché i governi israeliani lo sanno, che essi hanno costantemente istigato Fatah ad ingaggiare con Hamas una guerra fratricida, e minacciato di interrompere i benefici allungati ad Abbas e ai suoi colleghi qualora avesse pensato di far partecipare Hamas ad un governo unitario.Senza dubbio, questo punto di vista dei vari governi di Israele, ed in modo particolare del governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, può essere respinto da qualcuno in quanto eccessivamente duro. Dopo tutto, non cercò forse Ariel Sharon di retrocedere dal suo precedente atteggiamento di rifiuto con il restituire Gaza ai palestinesi, e Hamas non ripagò le sue buone intenzioni con il lancio di missili sulla popolazione civile di Israele?La risposta ad entrambe le domande è “No”. “No”, Sharon non aveva progettato che la rimozione delle colonie di Gaza annullasse l’attività di insediamento delle colonie di Israele nella West Bank. Il suo proposito era esattamente l’opposto: era quello di ottenere che il presidente George W. Bush consentisse ad un approfondimento ed un ampliamento dell’appropriazione israeliana nella West Bank. E “No”, Hamas non lanciò razzi su Sderot – un crimine di guerra indipendentemente da quali siano gli obiettivi – per ripagare Sharon della sua generosità, ma come reazione allo strangolamento di Gaza da parte del primo ministro, anche questo un crimine di guerra.In Israele, la persona più qualificata per conoscere con esattezza che cosa aveva in mente Sharon è Dov Weisglass. Egli era non solo il più stretto confidente di Sharon, il consigliere politico, l’avvocato personale e il capo dell’ufficio del Primo Ministro, ma anche colui che ha negoziato il trattato con gli Stati Uniti sulla rimozione delle colonie a Gaza in nome di Sharon. Qui viene riportato, da una intervista concessa a Haaretz, come Dov Weisglass ha descritto il trattato:“Ciò che ho concordato effettivamente con gli americani è stato che parte delle colonie [cioè, i maggiori blocchi di colonie nella West Bank] non sarebbero state affatto trattate, e non si affronterà l’argomento delle altre fintanto che i palestinesi non si saranno trasformati in finlandesi…..Il significato [dell’accordo con gli Stati Uniti] consiste nel congelamento del processo politico. E quando si congela quel processo si impedisce la costituzione di uno stato palestinese e si blocca ogni discussione sui profughi, sui confini e su Gerusalemme. In effetti, l’intero complesso che prende il nome di stato palestinese, con tutto ciò che comporta, viene rimosso dai nostri programmi a tempo indeterminato. E tutto ciò con l’autorizzazione ed il consenso [del Presidente Bush]….e la ratifica da parte di entrambe le Camere del Congresso.”Tutto ciò per spiegare perché la domanda non dovrebbe essere, “Israele dovrebbe discutere con Hamas?”, ma piuttosto, “Dovrebbe essere concessa l’autorizzazione a Israele di continuare la sua attività di insediamento di colonie fino al punto del non ritorno, da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale?” Netanyahu ha già infranto le sue promesse fatte al Presidente Barak Obama relative ad una moratoria limitata delle costruzioni al di fuori dei blocchi delle colonie. Costruzioni che in quelle colonie continuano furtivamente. Una risposta al protrarsi di questo inganno dovrebbe essere dato da un impegno americano con Hamas, condizionato all’attuazione delle promesse di Hamas di permettere a Abbas di negoziare un accordo di pace in nome di un governo unitario. Questa rappresenterebbe una chiara indicazione, data dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale, che la risposta alla precedente domanda è “No”.

Henry Siegman è direttore del Progetto U.S./Medio Oriente ed ex direttore nazionale del Congresso Ebraico Americano e del Consiglio delle Sinagoghe d’America.

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