Amira Hass : noi invidiamo i morti (famiglia Samouni)
A fine giugno, Richard Goldstone ha visitato il quartiere di Zaytoun nella città di Gaza, per fare un giro nel complesso dove viveva la famiglia allargata Samouni, oggetto di servizi su queste pagine nelle settimane passate (“L’ho nutrito come un uccellino”, del 17 settembre; “Morte nel complesso Samouni”, del 25 settembre). 29 membri della famiglia, tutti civili, furono uccisi nell’assalto invernale delle Forze Armate Israeliane (IDF) – 21 dei quali a seguito del bombardamento di una casa in cui nel giorno precedente i soldati avevano radunato circa 100 membri della famigliaSalah Samouni e il padrone della casa bombardata – Wael Samouni – hanno portato Goldstone in giro per le fattorie della zona, mostrandogli le case devastate e i frutteti sradicati. Nel corso di una conversazione telefonica questa settimana, Salah ha raccontato di aver mostrato a Goldstone una foto di suo padre, Talal, una delle 21 vittime della casa. Ha riferito al giudice – un ebreo sudafricano a capo del team di indagine delle Nazioni Unite sull’Operazione Piombo Fuso – che suo padre “era stato impiegato da ebrei” per quasi 40 anni e che ogni volta che stava male, “il datore di lavoro chiamava, si informava sulla sua salute, e gli vietava di tornare a lavoro finché non si fosse rimesso”.I Samouni erano sempre stati sicuri che, in caso di un’invasione militare a Gaza, sarebbero riusciti a convivere con l’esercito israeliano. Fino al 2005, prima del disimpegno di Israele dalla Striscia, l’insediamento ebreo di Netzarim si trovava proprio lì a fianco, e diversi famigliari vi lavoravano di tanto in tanto. Quando le pattuglie congiunte israelo-palestinesi erano in attività, i soldati israeliani e gli ufficiali di sicurezza palestinesi ogni tanto domandavano ai Samouni di “prestargli” un trattore per spianare un pezzo di terra o rimettere a posto la Salah al-Din Road (ad esempio quando doveva passarci un convoglio diplomatico). Mentre i Samouni lavoravano sui loro trattori, e raccoglievano sabbia, i soldati li sorvegliavano.“Quando i soldati volevano che ce ne andassimo, sparavano sopra le nostre teste. Questo è quanto mi ha insegnato l’esperienza”, ricorda Salah Samouni, che ha perso una figlia di 2 anni nell’attacco delle IDF, insieme ad alcuni zii ed entrambi i genitori. Gli uomini più anziani della famiglia, tra cui suo padre e due zii che furono uccisi il 4 e 5 gennaio da soldati delle IDF, lavoravano in Israele fino agli anni 90 in varie località, incluse Bat Yam, Moshav Asseret (nei pressi di Gedera) e la “Glicksman Plant”. Loro tutti credevano che l’ebraico appreso li avrebbe aiutati ed eventualmente salvati negli incontri con i soldati.Come è stato riferito su queste pagine il mese scorso, 4 gennaio, su ordine dell’esercito, Salah Samouni e il resto della sua famiglia lasciarono la loro casa, ormai trasformata in una postazione militare, e si trasferirono nella casa di Wael, posizionata sul lato sud della strada. Il fatto che a trasferirli erano stati i soldati, dopo aver visto i volti di bambini e donne anziane, e che questi circondavano la casa soltanto a poche decine di metri di distanza, aveva dato alla famiglia un po’ di fiducia - nonostante il fuoco delle IDF che proveniva da cielo, mare e terra, e nonostante la fame e la seteLa mattina di lunedì 5 gennaio, Salah Samouni uscì di casa e urlò in direzione di un’altra palazzina, dove credeva si trovassero ancora altri famigliari. Voleva che si unissero a lui, per stare in un posto più sicuro, vicino ai soldati. Nulla gli preannunciò le tre granate e i razzi che le IDF spararono subito dopo“Mia figlia Azza, la mia unica figlia, di 2 anni e mezzo, è stata ferita dal primo colpo che ha raggiunto la casa”, ha raccontato Salah ad Haaretz. “È riuscita a dirmi ‘Papà, fa male’. Poi, nel secondo attacco, è morta. E io pregavo. Tutto era ridotto in polvere e non riuscivo a vedere nulla. Pensavo di essere morto. Mi sono ritrovato in piedi, completamente insanguinato, e ho trovato mia madre seduta nell’ingresso con la testa piegata in giù. Ho mosso un po’ il suo viso, e mi sono reso conto che per metà non c’era più. Ho guardato mio padre, che aveva perso un occhio. Respirava ancora un po’, poi ha smesso”.Quando uscirono di lì – feriti, confusi, frastornati, temendo che stessero per arrivare la quarta granata o un razzo – decisi a raggiungere Gaza nonostante i soldati lì vicino gli gridassero di tornare indietro, credevano che nella casa ci fossero soltanto cadaveri. Non sapevano che in una grossa stanza sotto la polvere e le macerie, nove famigliari erano ancora vivi: l’anziana matriarca e cinque dei suoi nipoti e pronipoti – il più giovane dei quali aveva 3 anni, il più grande 16 – insieme ad un altro parente e suo figlio. Erano svenuti, alcuni sepolti sotto i cadaveri.Quando ripresero conoscenza, il 16enne Ahmad Ibrahim e il suo fratellino Yakub di 10 anni videro i corpi della loro madre, di quattro dei loro fratelli e del nipote. Mahmoud Tallal, 16 anni, aveva perso le dita; ancora sanguinante, scoprì che i suoi genitori – Tallal e Rahma – erano morti. Omar, il figlio di Salah di soli 3 anni, era sepolto privo di conoscenza sotto il corpo della 24enne Saffa, giustificando il perché non l’avessero trovato nei terribili momenti di panico in cui lasciavano la casa. Ahmad Nafez, 15 anni, ricordava come, quando il piccolo Omar si risvegliò tirandosi fuori da sotto il cadavere, individuò suo nonno Tallal e iniziò a scuoterlo, piangendo: “Nonno, Nonno, svegliati”.Il giorno precedente Amal, una bambina di 9 anni, aveva assistito all’irruzione dei soldati nella sua casa e all’uccisione di suo padre, Atiyeh. Aveva quindi trovato rifugio a casa di suo zio Tallal, e assieme ad altri famigliari era poi stata trasferita a casa di Wael. Non sapeva che suo fratello Ahmad stava morendo dissanguato tra le braccia di sua madre, in un’altra casa del quartiere.I bambini avevano trovato degli avanzi di cibo in cucina e li avevano mangiati. Più tardi, Ahmad Nafez raccontava ai suoi parenti come Ahmad Ibrahim passava di cadavere in cadavere – sua madre, i suoi quattro fratelli e suo nipote, tra gli altri – scuotendoli, colpendoli, dicendo loro di alzarsi. Forse per i colpi, Amal riprese conoscenza, con la testa sanguinante e gli occhi che roteavano nelle orbite. Continuava a gridare “acqua, acqua”, ripeteva di volere sua madre e suo padre, e batteva la testa sul pavimento, mentre gli occhi che ruotavano senza sosta.È troppo pericoloso rimuovere le schegge di granata conficcate nel suo cranio – lo dicono perfino i dottori di un ospedale di Tel Aviv. Adesso tutto le fa male e continuerà a farlo: quando fa freddo, quando fa caldo, quando è al sole. Non sarà mai in grado di concentrarsi nello studio.Nessuno è in grado di ricostruire il passare delle ore nella casa bombardata di Wael; alcuni sono rimasti in uno stato di esaurimento e apatia. La prima a riprendersi è stata Shiffa, la nonna 71enne. La mattina di martedì 6 gennaio, capì che nessuno li avrebbe salvati di lì a poco. Non i soldati che si trovavano a pochi metri di distanza, non la Croce Rossa né la Mezzaluna Rossa, e nemmeno gli altri parenti. Alla fine pensò che forse neanche sapessero che c’erano dei sopravvissuti.Il suo girello era tutto piegato e sepolto da qualche parte in casa, ma lei riuscì a fuggire con due dei suoi nipoti – Mahmoud (le cui gambe sanguinavano) e il piccolo Omar. Si trascinarono fuori e presero a camminare – lungo la strada silenziosa, tra le case abbandonate, capendo che alcune erano occupate da soldati.“Gli ebrei ci videro dall’alto e urlarono di tornare dentro casa”, ha ricostruito Shiffa. Questo accadde mentre stavano camminando lungo la strada e passarono accanto alla casa di sua sorella. Entrarono, ma non vi trovarono anima viva. I soldati – sparando in aria – entrarono dopo di loro. “Li implorammo di lasciarci andare a casa. ‘Dov’è casa vostra?’” chiesero. Lei disse “laggiù” e indicò ad est, verso la casa di uno dei suoi figli, Arafat, situata vicino alla Salah al-Din Road. I soldati li lasciarono proseguire. “Vedemmo gente uscire dalla casa di Arafat e da quella di Hijjeh. Tutti erano un po’ feriti e i soldati sparavano in aria”.A casa di Hijjeh trovò tutti in lacrime, ognuno con la sua storia di morti e feriti. “Gli raccontai cosa ci era successo, come tutti erano caduti addosso agli altri, a mucchi, i morti e i feriti”. Rimase lì col resto dei feriti per un’altra notte. Omar ricorda questa casa con affetto: lì gli fu dato del cioccolato.Soltanto mercoledì 7 gennaio le IDF permisero agli staff di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa di entrare nel quartiere. Questi raccontano che avevano chiesto di poterlo fare sin dal 4 gennaio, ma le IDF non lo consentirono – o sparando in direzione delle ambulanze che provavano ad avvicinarsi oppure rifiutandosi di approvare la collaborazione. Le squadre di medici, che avevano il permesso di entrare a piedi e dovevano lasciare le ambulanze a un chilometro o un chilometro e mezzo di distanza, pensavano di andare a soccorrere i feriti in casa di Hijjeh. Ma poi la nonna gli disse dei bambini feriti che erano rimasti indietro, in mezzo ai morti, nella casa di Wael. La squadra medica cominciò a soccorrerli, totalmente impreparata allo spettacolo che si trovò di fronte.Il 18 gennaio, dopo che le IDF ebbero lasciato la Striscia di Gaza, le squadre di soccorso tornarono nella zona. La casa di Wael fu trovata in rovine: i bulldozer delle forze armate l’avevano completamente demolita, con all’interno i corpi.
In una risposta generale alle domande di Haaretz in merito al comportamento dei militari nel quartiere della famiglia Samouni, il portavoce delle IDF ha detto che tutte le richieste sono state esaminate. “Al termine dell’indagine, i risultati saranno portati davanti al procuratore generale militare, che deciderà se prendere nuovi provvedimenti”, ha dichiarato il portavoce.Salah Samouni, nel corso della conversazione telefonica ci ha detto: “Ho chiesto a [Richard] Goldstone di scoprire soltanto una cosa: perché l’esercito ci ha fatto questo? Perché ci hanno fatto uscire di casa uno alla volta, e se l’ufficiale che parlava con mio padre in ebraico ha verificato che eravamo tutti civili – [dunque] perché poi ci hanno bombardato e ucciso? È questo che vogliamo sapere”. Pensa che Goldstone, nel suo rapporto, abbia dato una voce alle vittime. Non ha esternato la sua frustrazione nell’apprendere che il dibattito sul rapporto era stato posticipato, ma ha provato a descrivere cosa prova a nove mesi dall’evento. “Ci sentiamo [siamo] in esilio, nonostante siamo nella nostra patria, sulla nostra terra. Ci sediamo e invidiamo i morti. Sono loro quelli che stanno in pace”.
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