Il Marocco di cui non resta quasi niente di Monica Cillerai



Il Marocco di cui non resta quasi niente | il manifesto


Jamila ha 36 anni, una tunica lunga e un velo colorato che le copre i capelli. Insieme al marito ha raccolto i corpi dei suoi genitori sotto ciò che resta della sua casa – solo macerie – nel piccolo villaggio berbero di Tefaghaghte. Siamo a una una sessantina di chilometri da Marrakech, vicino all’epicentro del terremoto che ha provocato almeno 2.681 morti.


NON RESTA QUASI PIÙ NIENTE del paese incastrato alle pendici delle montagne dell’Atlante. La maggior parte delle case sono crollate, le strade bloccate da terra e pietre. Per ora si contano 84 vittime su una popolazione di poche centinaia. «Ci sono ancora corpi sotto le macerie. I soccorsi non hanno fatto niente. Ci hanno guardato mentre tiravamo fuori i cadaveri, solo adesso qualche aiuto sta arrivando» dice Jamila, mentre ci mostra i resti della culla dalla quale è riuscita a salvare il più piccolo dei suoi cinque figli da sotto le pietre.

C’è odore di morte nell’aria. Cadaveri di asini, capre e mucche compaiono tra le mura e i recinti a terra. Molte persone hanno perso tutto. A chi non è stato sottratto un famigliare, si è visto comunque sparire i propri mezzi di sostentamento, gli animali. «Non ho più niente. Le capre sono morte. Le vacche sono morte. Il mio camion è distrutto. Chi mi aiuterà a pagare il debito con la banca? Chi mi darà di che sopravvivere?». Piange Boujidge Fatima, appoggiata al camion sfondato dal tetto della sua stessa casa. «Qui eravamo già tutti poveri. Cosa faremo adesso?».

NON SI VEDONO SOCCORSI nel villaggio, ma la comunità è molto legata e tutti si aiutano. Un accampamento di teli e tende è stato costruito appena sotto i cumuli di macerie, e la distribuzione di bottiglie d’acqua e pane è in corso, gestita dagli stessi abitanti. Anche i feriti si muovono con bende di fortuna e pali di legno al posto di stampelle. Ma la domanda rimane. E ora?Nel villaggio di Tefaghaghte (foto di Monica Cillerai)

Amizmiz, cittadina di qualche migliaio di abitanti, sorge poco lontano. A differenza di Tefaghaghte, la strada è asfaltata e il paese è leggermente più benestante. Storicamente Amizmiz è stata sede di una cospicua comunità ebraica, ma il quartiere ebraico non si riconosce più. Le case crollate non si contano, e sulla maggior parte degli edifici ancora in piedi si aprono crepe e fessure. Nessuna casa è sicura. Porte e finestre divelte, le strade sono invase di macerie.

Anche qui la popolazione ha improvvisato accampamenti lontano dagli edifici per paura di nuove scosse. Ovunque, da dove si può, intere famiglie cercano di recuperare materiali utili e i propri averi.

Un gruppo di donne sta facendo i bagagli, valigie e un frigo lungo la via. La loro casa non c’è più. «È stato tutto improvviso, mentre dormivamo, di notte. In molti non ce l’hanno fatta a scappare» dice A., una trentina d’anni, origini berbere come la maggior parte degli abitanti della zona. Fa un cenno verso la donna al suo fianco. «Lei ha perso la figlia con tutti e tre i nipoti nel villaggio più su». Il dolore è enorme, nella voce, nello sguardo. «La figlia aveva 28 anni. La bimba più piccola, quattro». Non ci sono molte parole. Si stringono in un abbraccio.

Ad Amizmiz alcune squadre di pompieri sono all’opera per tirare fuori i corpi ancora sepolti dai detriti. La speranza di trovare persone vive è poca, e anche chi li cerca è troppo poco numeroso per riuscire in un intento che di ora in ora diventa più disperato. «Ci sono ancora centinaia di persone in trappola sotto le macerie» afferma un medico venuto ad aiutare da Marrakech. Ma gli aiuti sono ancora pochi.

Una piccola folla si raduna fuori da quello che era uno degli hotel economici del paese. Tre cadaveri si trovano all’interno, e ci vogliono ore per estrarre i corpi. «Questo era l’hotel “Cinque dirham”, l’hotel per i poveri. Con cinque dirham potevi dormire qui» racconta un gruppo di ragazzini che sta lì fuori a guardare mentre portano via i corpi. «Per questo loro non li conosciamo, vengono da fuori, sono dei villaggi». Cinque dirham sono cinquanta centesimi di euro, pochissimo per un albergo anche in Marocco.

A MORIRE, SONO STATI soprattutto i poveri. Chi aveva le case costruite peggio, o più vecchie, chi non poteva permettersi di metterle a posto coi materiali giusti. Ma anche gli aiuti e il sostegno sono andati per classi sociali. «Aiutano solo il centro di Marrakech, tutti gli altri restano per strada. Non c’è nulla qui, le case sono distrutte e non ci sono aiuti per noi. I nostri genitori, i nostri figli, tutti hanno dormito in tenda, per strada, al freddo». H. ha la voce arrabbiata. Ci mostra la sua casa distrutta, lo sguardo duro mentre fuma una sigaretta appoggiato a una macchina ricoperta di polvere. «Che Dio ci aiuti e ci porti fortuna».
A Marrakech, la situazione si è regolarizzata abbastanza velocemente. Molti degli edifici crollati o in pericolo sono stati isolati, le strade liberate, le ricerche dei dispersi finite.

Marrakech è una delle città più importanti per il turismo marocchino, e la paura di veder fuggire gli stranieri è tanta. Decine di camionette di polizia stanziano permanentemente per le strade della città, nel tentativo di trasmettere sicurezza e una parvenza di controllo a una situazione di natura incontrollabile. Detriti e macerie ancora giacciono ai lati delle strade, ma di per sé la città ha ripreso in buona parte la sua vita normale.

Di notte invece, sono ancora centinaia le persone che dormono per strada, nei parchi, nelle piazze, o sui marciapiedi. Molti non dormono davvero. Ci sono intere famiglie, bambini nei passeggini, vecchi con le sedie a rotelle che difficilmente riuscirebbero a scappare da un eventuale crollo. «Le nostre case non sono sicure. Abbiamo paura che arrivi un’ altra scossa», è la risposta comune.

Anche fuori da uno degli ospedali principali della regione, l’Ospedale Mohammed VI, ci sono persone che dormono all’ingresso del pronto soccorso. Le ambulanze si susseguono portando feriti da tutta la zona, fino ad ora oltre le 2400 unità.

SONO PIÙ DI 300 MILA le persone colpite dal terremoto che hanno bisogno di sostegno, secondo le stime dell’Onu. Per ora il Marocco ha accettato gli aiuti di quattro paesi: Spagna, Regno Unito, Qatar ed Emirati Arabi. Agli aiuti offerti da Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Russia, India, Italia e altri stati così come di numerose ong il Reame di Mohammed VI non ha ancora risposto. Ragioni geopolitiche e paura di ingerenze straniere, probabilmente. E non a torto. Ma a pagarne le spese, al momento, è la popolazione civile terremotata.
Intanto, nelle parti più dimenticate, tra le montagne dell’Atlas marocchino, si continua a scavare.

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