Nirit Anderman : "FOTOGRAFARE LA FINE DI ISRAELE. IL REQUIEM DI ALEX LEVAC"
Traduzione di :
La foto dell'affare dell'autobus 300 scattata da Alex Levac ha fatto la storia, ma per lui è ancora incomprensibile il motivo. Ora il famoso fotografo israeliano riesamina la sua straordinaria raccolta di insoliti frangenti israeliani che definisce "una documentazione di disastri".
Di Nirit Anderman - 23 aprile 2023
Alex Levac non ha mai pensato, all'inizio della sua vita, che la fotografia fosse la sua vocazione. Sicuramente non avrebbe mai immaginato che avrebbe studiato fotografia a causa del proprietario di un panfilo antisemita che lo minacciò con un fucile.
Bene, il retroscena inizia nel 1967. Appena uscito dall'università, il ventitreenne Alex Levac sognava avventure in stile Jules Verne. Si imbarcò su una nave, salpò per il Brasile e con un amico antropologo scattò foto delle tribù indigene dell'Amazzonia. L'amico scriveva e Levac, ancora inesperto, si occupava della macchina fotografica. Da ha intrapreso un altro viaggio in nave, verso il Portogallo.
Mentre sognava che forse la macchina fotografica gli avrebbe permesso di continuare a viaggiare per sempre, arrivò a Lisbona e si ritrovò su di un panfilo il cui proprietario decise di fare il giro del mondo. Levac si aggregò.
"Ma questo tipo si è rivelato da subito un pazzo", sorride. "Abbiamo fatto un giro per il Marocco e lo Yemen, e poi mi ha portato a Gibilterra. Ha tirato fuori un fucile, ha iniziato a sparare in aria, ha maledetto gli ebrei e mi ha cacciato dalla barca. È così che mi sono ritrovato a Gibilterra con 30 sterline inglesi in tasca, cercando di capire cosa avrei fatto".
Trenta sterline era anche il prezzo a cui l'aeronautica britannica offriva voli notturni per Londra, dove Levac rimase per un mese o due con Boaz Davidson, un amico d'infanzia che lì aveva appena iniziato la scuola di cinema.
"Ad un certo punto mi disse: 'Perché non resti qui a studiare fotografia?'" racconta Levac. "Così studiai fotografia, del tutto per caso".
Oltre cinquant'anni dopo, e non per caso, Levac è considerato uno dei principali fotografi israeliani. È diventato una celebrità dal 1984, quando una sua foto sul giornale Hadashot ha sconvolto il Paese. La foto mostrava membri del servizio di sicurezza dello Shin Bet che scortavano in custodia uno dei dirottatori di un autobus, dopo che l'agenzia aveva detto che i dirottatori erano stati uccisi durante la liberazione dei passeggeri. In realtà, sono stati giustiziati poco dopo lo scatto della foto. Questo è ciò che gli israeliani chiamano l'affare dell'autobus 300.
Levac ha sviluppato un linguaggio fotografico unico che condivide da oltre trent'anni nella sua rubrica settimanale nell'edizione ebraica di Haaretz. Cattura un pezzo della realtà locale che a prima vista potrebbe sembrare banale, ma che spesso rivela crepe nella società israeliana. Nel 2005 Levac è diventato uno delle sole quattro persone a vincere il Premio Israele per la fotografia.
In un servizio settimanale pubblicato anche in inglese, ""Ai Confini Della Realtà"", visita la Cisgiordania con l'editorialista di Haaretz Gideon Levy per documentare le iniquità dell'Occupazione. Ancora oggi, a 78 anni, raramente si vedrà Levac senza una macchina fotografica.
Ha smesso da tempo di fare foto di cronaca, non che sia fuori dal giro. Nelle ultime settimane ha seguito le proteste contro i tentativi del governo Netanyahu di indebolire la magistratura, sperando in uno scatto speciale, magari con un pizzico di ironia.
E ad una delle manifestazioni è successo: ragazzi che baciano una foto di Benjamin Netanyahu salvata su uno dei loro telefoni, mentre una gigantografia di Theodor Herzl, il celebre visionario di uno Stato ebraico, guarda. L'immagine è apparsa nella rubrica settimanale di Levac.
"Questo è quello che cerco, quella combinazione di elementi", dice Levac. "Non sempre riesce".
Ha accumulato migliaia, forse decine di migliaia, di foto nel corso degli anni, e continuano ad accumularsi. Ma quelle che sono particolarmente importanti per lui sono quelle che catturano la realtà sfuggente (in Israele) in una composizione incorniciata. "È molto importante per me essere connesso a ciò che sta accadendo e non scattare foto di paesaggi e cose del genere", spiega.
"Ciò che è importante per me è documentare le nostre vite, come appariamo", dice e subito dopo fornisce una chiave per visualizzare il suo enorme archivio di opere.
Il defunto giornalista Amos Elon, racconta, una volta gli disse qualcosa che gli rimase profondamente impresso e che elabora da anni. "Mi disse: 'Alex, ascolta, devi fotografare la fine di questo Paese, il suo requiem'. Gli ho chiesto come potessi farlo, e lui ha risposto: 'Continua a fare quello che stai facendo, ma concentrati sugli eventi, su come questo posto stia lentamente ma inesorabilmente scomparendo, cambiando, trasformandosi in qualcos'altro'".
"Me l'ha detto 30 anni fa, e da allora è diventato una specie di mantra per me", dice Levac. "Quindi non è che vado a una manifestazione con l'intenzione di fotografarla, ma penso che inconsciamente lo cerco sempre. Non dico: "Oh, ecco una foto che punta al requiem". Ma quando guardo le mie foto anni dopo, vedo che c'è una certa sequenza, una documentazione di disastri, una storia di una certa decadenza, di un cambiamento che sta avvenendo qui, e non in senso positivo".
Il progettista grafico David Tartakover, un amico di Levac che ha curato due dei suoi libri, dice che è "tra le poche persone che conoscevo che vanno a lavorare sulla strada ogni giorno. Ha una scadenza settimanale, e la strada è il suo studio. Non mette in scena le cose, ma piuttosto le coglie dal suo punto di vista. È un grande umanista, e questo si riflette ovviamente nelle foto.
"Quando si cammina per strada con lui, si vedono le cose dalla sua stessa angolazione, dallo stesso punto di vista, ma lui vede qualcosa di insolito, che risalta ed è eccezionale. Alex è come la videocamera indossata dai poliziotti, che registra tutto ciò che vedono, ma da un punto di vista molto originale. E ovviamente è politicamente consapevole, in due campagne elettorali è apparso nella lista dei candidati alla Knesset (Parlamento) del Partito Meretz, e questa è una dichiarazione".
PROIETTARSI SU UNA FOTO
Lo stretto legame tra il lavoro di Levac e la storia israeliana è evidente anche nel nuovo documentario in lingua ebraica "Il Gruppo di Alex", che esplora il potere delle immagini visive. Nel film di Yonatan Nir, che ha debuttato in Israele su Yes Docu la Giornata della Memoria, Levac, lo psichiatra Adi Doron e la fototerapista Essie Haus forniscono fototerapia per le persone che combattono il disturbo da stress post-traumatico legato al combattimento. Alcuni soffrono a causa delle lotte di una persona cara come un coniuge, padre o figlio.
Levac li aiuta a elaborare il dolore. Guardano le sue foto, ne scelgono una che li tocchi personalmente e spiegano la loro scelta e il loro trauma. Vediamo uomini e donne, religiosi e laici, persone del centro e della periferia del Paese mentre il disturbo da stress post-traumatico filtra dal personale al nazionale.
"Sono entrato nel loro mondo", dice Levac. "Non avevo idea di cosa passassero queste persone giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non so quanto sia stato significativo il mio contributo, ma si è sviluppata una dinamica di gruppo. La fotografia li ha aperti. Improvvisamente mi sono reso conto di quanto potere abbia una fotografia".
"Nel seminario ho capito fino a che punto le persone possono proiettare qualcosa di se stesse su una foto, in modo che diventi qualcosa di loro, a seconda di ciò che vedono".
Video: Il trailer del documentario "Il Gruppo di Alex": https://youtu.be/IPDid-tEQQQ
Le confessioni nel film sono a dir poco toccanti.
"Esternamente sembrano come noi, ma quello che attraversano in ogni momento della loro vita è incredibile", dice Levac. "Ed è anche incredibile che la nostra società non se ne occupi affatto".
Cita Itzik Saidian, che soffre di disturbo da stress post-traumatico da quando ha combattuto nella guerra di Gaza del 2014. Nel 2021 si è dato fuoco davanti al Ministero della Difesa.
Levac dice che Saidian "ha dovuto darsi fuoco per rendersene conto, anche se la sua ferita è, dopotutto, un risultato diretto di come viviamo qui. Noi come società abbiamo costretto queste persone a queste situazioni traumatiche e ora non facciamo abbastanza per aiutarle a uscirne".
Nel film parli anche del tuo trauma, di come durante il servizio militare hai giocato alla roulette russa con degli amici, uno dei quali si è sparato. Dici che il tuo intero atteggiamento nei confronti delle armi e dell'esercito è cambiato.
"Non sto paragonando questo al trauma delle persone che hanno partecipato al seminario; non mi riguarda allo stesso modo. Ma sì, a volte ci penso. Il ragazzo che si è sparato era un mio buon amico e questo ha davvero cambiato tutto per me. Sono stato congedato dall'esercito in anticipo per questo motivo. In realtà volevo essere un soldato combattente. Ma dopo quell'evento la mia storia con l'esercito era finita".
Hai sicuramente fotografato una quantità di situazioni tragiche: soldati, armi, violenza e uccisioni; come ti ha influenzato questo?
"Queste cose fanno parte di te anche se non ne sei consapevole. Sono ossessionato dallo scattare foto di persone per strada armate. Israele è l'unico Paese al mondo in cui si vedono così tante persone che vanno in giro armate, e non necessariamente soldati; anche civili".
Senti di essere già alla fase finale?
"Sì, in una certa misura".
Quale pensi sia la cosa più significativa che ti stai lasciando alle spalle?
"Vorrei che le persone vedessero le mie foto come una sorta di mosaico, molti pezzi che insieme creano un'immagine dell'israelianità così come la vedo io. A parte l'estetica e la composizione, la fotografia deve aggiungere valore, una sorta di dichiarazione. Spero che chiunque guardi le mie foto capisca il mio punto di vista, un po' di ironico e un po' triste".
SIAMO TUTTI VICINI ALLA MORTE
Levac è nato a Tel Aviv nel 1944 e lì ha studiato all'Istituto Tel Nordau. Dopo il congedo dall'esercito ha studiato filosofia e psicologia all'Università di Tel Aviv, poi sono arrivati i viaggi in tutto il mondo e lo studio a Londra.
Nel 1981, dopo 14 anni passati in giro per il mondo, torna in Israele. Si è stabilito ad Ashkelon, sulla costa meridionale, sbarcava il lunario fotografando progetti di rinnovamento urbano e matrimoni e svolgendo lavori di pubbliche relazioni.
Occasionalmente ha anche scattato foto per il mensile Monitin e il settimanale Anashim. Quando gli è stato offerto un lavoro a tempo pieno presso il quotidiano Hadashot, ha fatto il grande salto.
"La verità è che avevo un po' paura perché in questo lavoro hai delle responsabilità e sei giudicato ogni giorno", dice. "Ogni giorno guardano le tue foto e dicono che sei un bravo fotografo o che non sei bravo. Ogni giorno devi ripensare. Ancora oggi mi innervosisco per questo".
Oltre al Premio Israele, ha ricevuto premi dall'allora Ministero dell'Istruzione e della Cultura, dal Museo d'Arte di Tel Aviv e dal Museo d'Israele. Ha pubblicato libri e allestito mostre, tiene conferenze sulla fotografia e conduce seminari.
C'è una contraddizione tra i premi e gli onori che gli sono stati conferiti e la sua modestia e autocritica. Ad esempio, non nega i problemi con la rubrica "Ai Confini Della Realtà".
"Il problema di questa rubrica, come dice Gideon levy, è che nessuno la legge, e chiunque la legga in realtà non ci presta molta attenzione. Posso capirlo, perché quanto si può leggere sulle ingiustizie dell'Occupazione?", lui dice:
"Scriviamo un pezzo ogni settimana e ogni volta incontriamo quell'esperienza di lutto, di dolore, di queste persone, e non c'è abitudine perché ogni volta è forte e mi colpisce e voglio che gli altri lo leggano. Ma è ripetitivo. Questa è la banalità della morte, dell'Occupazione; non è più interessante, non importa quanto bene scrivi, non importa quanto sia bella la foto".
Sono passati molti anni da quando eri un fotografo di cronaca, ma nel film racconti alle persone nel seminario di quel periodo della tua carriera, di come arrivavi sulla scena di un disastro e ti ritrovavi a cercare l'orrore per l'impatto di uno scatto.
"Succede spesso ai fotoreporter. Non sono l'unico che cerca, dalla sofferenza, dal dolore e dal disastro, di creare uno scatto accattivante, il che è assurdo. Ma a quanto pare è inevitabile. Non dici a te stesso: 'Va bene, è un evento terribile, farò un brutto scatto'. No, perché vuoi dimostrare quanto sei bravo".
In una zona di combattimento o all'indomani di un attacco terroristico o di un disastro, c'è un potenziale maggiore per una fotocronaca potente.
"Vero. Ma quando tornavo a casa pensavo a quello che vedevo, a come scattavo una foto, a come mi arrampicavo su un albero per avere un'inquadratura migliore delle persone che erano state fatte saltare in aria mezz'ora prima. Il peggio era ai funerali, perché tutti scattavano primi piani dei membri della famiglia sulla tomba, specialmente durante la guerra del Libano".
"Alcune persone dicono: 'Quanti soldi hai preso per questo, sciacallo?'"
"E poi il Consiglio Stampa ha deciso che non ci sarebbero stati più primi piani sulle tombe aperte, ma questo è durato un giorno o due, perché i redattori hanno detto: 'Abbiamo bisogno di scatti forti di persone che piangono', e poi tutti ricominciano a scattare foto.
"Ricordo che un autobus è stato fatto saltare in aria a Gerusalemme, e sono andato con alcuni fotografi su un balcone vicino, mi sono guardato intorno e improvvisamente ho visto dei resti umani che pendevano dai rami di un albero: una mano, un dito. Ho iniziato a fotografare e poi ho detto: "Basta, non posso farlo". E mi sono fermato proprio in quel momento. Ma come dici tu, le foto di cronaca più forti sono piene di sangue, sudore e lacrime".
Perché?
"Ci ho pensato molte volte e penso che sia la vicinanza alla morte. Dopotutto, prima o poi tutti moriamo e foto del genere ci avvicinano un po' di più a quel momento".
"Una volta ero in auto con il giornalista Zvi Gilat in una giornata di manifestazioni, sparatorie e morti nel villaggio di Anabta vicino a Tul Karm in Cisgiordania nel 1988. Siamo stati fermati e ho detto: 'Cristo, ora ci falceranno', invece no, mi hanno tirato fuori dall'auto e mi hanno detto: 'Fotografa questo', e io ho scattato una foto di due palestinesi che erano stati uccisi. E siccome mi trovavo controluce, è venuta fuori un'immagine che, in termini di esposizione, è un po' Rembrandt".
Ma la tua foto più famosa è stata effettivamente scattata quando la persona era ancora viva, un attimo prima che la uccidessero. La foto del terrorista dell'affare dell'autobus 300 ha rivelato una verità nascosta. Questo è il sogno di ogni fotoreporter.
"Improvvisamente sono diventato famoso. All'improvviso tutti sapevano chi era Alex Levac. È stato molto lusinghiero. Sai, un'esclusiva è un'esclusiva; non ce ne sono molte nella fotografia, specialmente uno scatto che ha stravolto il servizio di sicurezza Shin Bet e ha causato una crisi nel governo. Ancora oggi lo insegnano all'università e lo Shin Bet mi ha persino invitato alcune volte a tenere conferenze sull'argomento".
"Quindi sì, mi ha reso famoso, ma c'è sempre il timore di essere ricordati come l'autore di un'unica foto. Alcuni dicono, 'Quanti soldi hai preso per questo, sciacallo?' E altri dicono: "Complimenti per lo scatto". Ma l'ho fotografato semplicemente perché ero lì. Non stavo pensando. Non sapevo cosa avrei fotografato. Non sapevo nemmeno che stavo scattando una foto a uno dei ragazzi che hanno dirottato l'autobus. Non ne avevo assolutamente idea.
"Oggi una foto del genere non riceverebbe tale copertura, non farebbe scalpore. Allora la società era diversa. Ogni volta che un palestinese veniva ferito dal fuoco di un soldato, veniva indagato".
To Photograph the End of Israel, Its Requiem’
His photo from the Bus 300 affair made history, but Alex Levac didn’t realize its significance. Now the famed Israeli photographer reexamines his remarkable collection of unusual Israeli moments he calls ‘a documentation of disasters’
Alex Levac. "The PTSD seeps from the personal to the national."Credit: Avishag Shaar-Yashuv
Nirit Anderman - Apr 23, 2023
At no point early in his life did Alex Levac think that photography was his calling. He surely never imagined that he would study photography because of an antisemitic yacht owner who threatened him with a gun.
Well, the backstory starts in 1967. Fresh out of university, the 23-year-old Levac dreamed of Jules Verne-style adventures. He boarded a ship, sailed to Brazil and with an anthropologist friend took photos of Indigenous tribes in the Amazon. The friend did the writing, and Levac – still an amateur – handled the camera. From there it was another journey by ship, to Portugal.
While dreaming that maybe the camera would let him keep traveling forever, he arrived in Lisbon and found himself on a yacht whose owner decided to sail the globe. Levac tagged along.
“But this guy quickly proved to be quite the lunatic,” he smiles. “We did a tour around Morocco and Yemen, and then he just tossed me ashore in Gibraltar. He took out a rifle, started firing in the air, cursed the Jews and threw me off the boat. That’s how I found myself in Gibraltar with 30 British pounds in my pocket, trying to figure out what I was going to do.”
The photo from the Bus 300 affair in 1984 that made Levac famous.Credit: Alex Levac
Thirty pounds was also the price at which the British air force was offering night flights to London, where Levac stayed for a month or two with Boaz Davidson, a childhood friend who had just started film school there.
“At some point he told me, ‘Why don’t you stay here and study photography?’” Levac says. “So I went to study photography, completely by chance.”
Over five decades later, and by no chance at all, Levac is considered one of Israel’s leading stills photographers. He has been a celebrity since 1984, when a picture of his in the newspaper Hadashot roiled the country. The photo showed members of the Shin Bet security service leading one of the captured hijackers of a bus – after the agency had said the hijackers had been killed in the freeing of the passengers. Actually, they were executed shortly after the photo was taken. This is what Israelis call the Bus 300 affair.
Levac has developed a unique photographic language that he has been sharing for over three decades in his weekly column in Haaretz’s Hebrew edition. He captures a piece of the local reality that might seem banal at first, but it often reveals cracks in Israeli society. In 2005 Levac became one of only four people to win the Israel Prize for photography.
Tel Aviv's Kaplan Street last month. Netanyahu on the phone, Herzl in the backdrop.Credit: Alex Levac
In a weekly feature that also runs in English, “The Twilight Zone,” he visits the West Bank with Haaretz columnist Gideon Levy to document the iniquities of the occupation. Even today, at 78, you’ll rarely catch Levac without a camera.
He has long since stopped doing news photography, not that he’s out of the loop. In recent weeks he has visited the protests against the Netanyahu government’s attempts to weaken the judiciary, hoping for a choice shot, maybe with a touch of humor.
And at one of the demonstrations it happened: boys kissing a photo of Benjamin Netanyahu displayed on one of their phones, as a large poster of Theodor Herzl – the celebrated visionary of a Jewish state – looks on. The image appeared in Levac’s weekly column.
“That’s what I look for, that combination of elements,” Levac says. “It doesn’t always work out.”
He has accumulated thousands, possibly tens of thousands, of photos over the years, and they’re still piling up. But those that are particularly important to him are the ones that capture the evanescent reality [in Israel] into a framed composition. “It’s very important to me to be connected to what’s happening, and not to take pictures of landscapes and things like that,” he explains.
“What’s important to me is the documentation of our lives, how we look,” he says and immediately afterwards provides a key to viewing his huge body of work.
The late journalist Amos Elon, he says, once told him something that was thoroughly etched in him and has been reverberating for years. “He told me, ‘Alex, listen, you have to photograph the end of this country, its requiem.’ I asked him how I can do that, and he said, ‘Continue to do what you’re doing, but always think about that direction, about how this place is slowly but surely disappearing, changing, turning into something else.’
“He said that to me 30 years ago, and since then it’s become a kind of mantra for me,” says Levac. “So it’s not that I go to a demonstration with an intention of photographing it, but I think that subconsciously I’m always looking for that. I don’t say, ‘Oh, here’s a picture that points to the requiem.’ But when I look at pictures of mine years later, I see that there’s a certain sequence, a documentation of disasters, a story of a certain decadence, of a change that’s taking place here, and not in a positive sense.”
Graphic designer David Tartakover, a friend of Levac’s who has edited two of his books, says that he is “among the few people I knew who goes to work in the street every day. He has a weekly deadline, and the street is his studio. He doesn’t stage things, but rather he records from his point of view. He’s a great humanist, and that’s reflected in the photos of course.
“When you walk in the street with him, you’re both at the same angle, the same point of view, but he sees the thing that’s unusual, that stands out and that’s exceptional. Alex is like the body camera worn by policemen, which records everything they see, but from a very original point of view. And of course he is politically aware, in two election campaigns he appeared on the Meretz slate of Knesset candidates, and that’s a statement.”
Purim in Jerusalem in 1994, with a death notice for Jewish terrorist Baruch Goldstein in the background.Credit: Alex Levac
Projecting yourself onto a photo
The tight connection between Levac’s work and the Israeli story is also evident in the new Hebrew-language documentary “Alex’s Group,” which explores the power of visual images. In Yonatan Nir’s film, debuting in Israel on Yes Docu on Memorial Day, Levac, psychiatrist Adi Doron and photo therapist Essie Haus provide photo therapy for people battling combat-related post-traumatic stress disorder. Some are suffering because of the struggles of a loved one like a partner, father or son.
Levac helps them discuss the pain. They look at his photos, pick one that touches them personally, and explain their choice and their trauma. We see men and women, religious and secular, people from the center of the country and people from the outskirts as the PTSD seeps from the personal to the national.
“I entered their world,” Levac says. “I had no idea what these people go through day after day, hour by hour. I don’t know how significant my contribution was, but a group dynamic developed. Photography opened them up. ... Suddenly I realized how much power a photograph has.
“In the workshop I realized the extent to which people can project something of themselves onto a photo, so it becomes something that’s theirs, depending on what they see.”
The trailer for the documentary "Alex's Group." "Photography opened them up."
The confessions in the film are poignant, to say the least.
“Outside they look like you and me, but what they go through every moment of their lives is unbelievable,” Levac says. “And it’s also unbelievable that our society doesn’t really address it at all.”
He mentions, Itzik Saidian, who has been suffering from PTSD since he fought in the 2014 Gaza war. In 2021 he set himself on fire in front of the Defense Ministry.
Levac says Saidian “had to burn himself alive to bring awareness to it, even though his injury is, after all, a direct result of how we live here. We as a society forced these people into these traumatic situations, and now we don’t do enough to help them get out of it.”
Meitar near Be'er Sheva, 2018. "Israel is the only country in the world where you see people walking around with guns so much."Credit: Alex Levac
In the film you also talk about your own trauma, how during your military service you played Russian roulette with friends, one of whom shot himself. You say that your entire attitude toward guns and the army changed.
“I’m not comparing that to the trauma of the people who took part in the workshop; it doesn’t affect me the same way. ... But yes, occasionally I go back to that. The guy who shot himself was a good friend of mine, and that really changed everything for me. I was discharged from the army early because of that. ... I actually wanted to be a combat soldier. But after that story my romance with the army was over.”
You’ve certainly photographed your share of military situations, weapons, violence and killing; how has this affected you?
“These things are part of you even if you aren’t aware of them. I’m obsessed with taking pictures of people in the street with guns. Israel is the only country in the world where you see people walking around with guns so much, and not necessarily soldiers; civilians too.”
Levac. A friend in London suggested that he study photography there, so he did.Credit: Avishag Shaar-Yashuv
Do you feel you’re already at the end stage?
“Yes, to a certain degree.”
What do you think is the most significant thing you’re leaving behind?
“I’d like people to view my pictures as a kind of puzzle, lots of pieces that together create a picture of Israeliness as I see it. Aside from aesthetics and composition, photography has to add value, some kind of statement. I hope that anyone who looks at my pictures will understand how I see things here – with a bit of humor and a bit of sadness.”
Hebron, 2004. "In this work you have responsibility."Credit: Alex Levac
All of us near death
Levac was born in Tel Aviv in 1944 and studied at the Tel Nordau School there. After the army he studied philosophy and psychology at Tel Aviv University, then came his worldwide travels and study in London.
In 1981, after 14 years around the world, he returned to Israel. He settled in Ashkelon on the southern coast, took pictures of an urban renewal project and moonlighted by photographing weddings and doing public relations jobs.
He also occasionally took photos for the monthly Monitin and the weekly Anashim. When he was offered a full-time job at the daily Hadashot he took the plunge.
“The truth is, I was a bit afraid because in this work you have responsibility and you’re judged every day,” he says. “Every day they look at your pictures and say that you’re a good photographer or that you’re not good. Every day you have to rethink. To this day I get nervous about that.”
In addition to his Israel Prize, he has won awards from the then-Education and Culture Ministry, the Tel Aviv Museum of Art and the Israel Museum. He has published books and staged exhibitions, and he lectures on photography and leads workshops.
Mount Gerizim in the West Bank in 2013. One form of Israeliness.Credit: Alex Levac
There’s a contradiction between the awards and honors showered on him and his modesty and self-criticism. For example, he doesn’t deny the issues with “The Twilight Zone.”
“The problem with this column, as Gideon says, is that nobody reads it, and anybody who actually does read it doesn’t pay much attention to it. I can understand that, because how much can you read about the injustices of the occupation?” he says.
“We go there every week and each time we encounter that experience of bereavement, of these people’s pain, and there’s no burnout because each time it’s strong and affects me and I want others to read it. But it’s repetitious. That’s the banality of death, of the occupation; it’s no longer interesting no matter how well you write, no matter how good the photo is.”
It’s been many years since you were a news photographer, but in the film you tell the people in the workshop about that period of your career, about how you would arrive at the scene of a disaster and find yourself searching the horror for the aesthetic of a shot.
“That happens a lot to photojournalists. I’m not the only one who tries, from the suffering, pain and disaster, to create an attractive shot, which is absurd. But apparently it’s unavoidable. You don’t tell yourself: ‘Okay, it’s a terrible event, I’ll take an ugly shot.’ No, because you want to show how good you are.”
A shooting zone in the Arava in 2018. "You want to show how good you are."Credit: Alex Levac
In a combat zone or the aftermath of a terror attack or disaster, there’s greater potential for a strong shot.
“True. But when I got home I’d suddenly think about what I saw and how I took a picture, how I climbed a tree to get a better shot of people who were blown up half an hour earlier. The worst was at funerals, because everybody shot close-ups of family members at the grave, especially during the Lebanon war.
“And then the Press Council decided that there would be no more close-ups at open graves, but this lasted a day or two, because the editors said, ‘We need strong shots of people crying,’ and then everybody starting taking pictures again.
“I remember that a bus was blown up in Jerusalem, and I went with a few photographers to a nearby balcony, looked around and suddenly saw limbs hanging on a tree – a hand, a finger. I started shooting that and then said, ‘Enough, I can’t do this.’ And I stopped right then. But as you say, the strongest news photos are full of blood, sweat and tears.”
Anabta in the West Bank, 1988. Light like Rembrandt.Credit: Alex Levac
Why is that?
“I’ve thought about that many times, and I think it’s the proximity to death. After all, we all die at some point, and photos like that bring us a little closer to that moment.
“Once I was in a car with [journalist] Zvi Gilat on a day of demonstrations, shooting and deaths in the village of Anabta near Tul Karm [in the West Bank] in 1988. We were stopped, and I said, ‘Wow, now they’re going to mow us down.’ But no, they pulled me out of the car and said, ‘Photograph this,’ and I took a picture [of two Palestinians who had been killed]. And because I was standing in front of the light, a picture came out that, in terms of lighting, is a bit Rembrandt.”
Latrun, 1999. Levac has seen his share of weapons, violence and killing.Credit: Alex Levac
But your most famous picture was actually taken when the person was still alive, a moment before they killed him. The photo of the terrorist from the Bus 300 affair revealed a hidden truth. That’s the dream of every photojournalist.
“Suddenly I became famous. Suddenly everybody knew who Alex Levac was. That was very flattering. You know, a scoop is a scoop; there aren’t many scoops in photography, especially one that changed the Shin Bet [security service] and caused a crisis in the government. To this day they teach it at university, and the Shin Bet even invited me a few times to lecture about it.
“So yes, it made me famous, but there’s always the fear that you’ll be remembered as a one-picture photographer. Some people say, ‘How much money did you get for that, you traitor?’ And others say, ‘Good for you for shooting that.’ But I shot it simply because I was there. I wasn’t thinking. I didn’t know what I would be shooting. I didn’t even know that I was taking a picture of one of the guys who hijacked the bus. I had absolutely no idea.
“Today a photo like that wouldn’t receive such coverage, it wouldn’t cause an uproar. Back then society was different. Whenever a Palestinian was wounded by a soldier’s fire, it would be investigated.”
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