KHADER ADNAN: PERCHÉ UN PALESTINESE SI LASCIA MORIRE DI FAME di Haaretz

Di Yair Assulin - 5 maggio 2023

Fonte: https://www.haaretz.com/.../00000187-eccf-d3a6-a38f...

https://archive.md/LRXp5

Tradotto da : Beniamino Benjio Rocchetto


Un uomo muore di fame. Ottantasei giorni senza cibo. Ottantasei. Giorno dopo giorno, in carcere, in isolamento.

Il corpo avvizzisce, lo stomaco si restringe lentamente, la coscienza si annebbia, il dolore prende il sopravvento. Un uomo con una famiglia si rifiuta di mangiare, giorno dopo giorno. Queste sono le prime cose che vengono alla mente quando si pensa alla morte di Khader Adnan, attivista della Jihad Islamica morto questa settimana in prigione dopo 86 giorni di sciopero della fame.

Molto prima di parlare di chi era e quali fossero le accuse, molto prima di sviluppare qualsiasi pensiero sull'ideologia e la politica, prima delle nostre giustificazioni automatiche e autoconvincenti, dobbiamo concentrarci su questo evento in cui un uomo si è lasciato morire di fame. Occorre rifletterci profondamente e ascoltare il messaggio che ne deriva, il grido che si leva.

Non possiamo non trarre conclusioni rilevanti da questo evento. Uno sciopero della fame di 86 giorni trascende il linguaggio e qualsiasi tentativo di inquadrarlo fallirà.

Un uomo, e non importa chi è e cosa rappresenta, fa lo sciopero della fame per 86 giorni. Cosa gli passa per la testa? Quanto dolore deve soffrire per fare una cosa del genere? Di quanta rabbia e disperazione ha bisogno per non spezzarsi lungo la strada, per non essere tentato dal delirio della mente e dello stomaco? Invece, si lascia morire di fame.

In realtà, le origini del suo sciopero della fame, la perseveranza, il rifiuto di rinunciare alla libertà, sono la vera storia della sua morte. Non dobbiamo permettere a nessuno di strumentalizzarlo, a nessuno, per nessun motivo. Un uomo si è lasciato morire con uno sciopero della fame durato 86 giorni. Ottantasei giorni.

Provate a immedesimarvi, ricordate la fame e la debolezza che provate forse dopo un giorno di digiuno. E ora moltiplicate questo numero per 86.

Riuscite a immaginarlo? E cosa dice della persona che ha scelto di combattere in questo modo, della sua libertà? Cosa dice del suo stato d'animo? Cosa dice della situazione che lo ha portato lì? Cosa dice del valore e del potere della libertà? E sì, cosa dice di noi?

Queste sono le domande che devono essere poste, più che questioni tattiche o etiche come di chi è la colpa, o se avrebbe dovuto essere sottoposto ad alimentazione forzata o rilasciato. Una cascata molto più grande di discussioni si terranno sulla tattica e sull'etica, e non sono affatto semplici. Ci sono davvero due lati.

Ma questo caso, in cui un uomo si lascia morire in uno sciopero della fame di 86 giorni, è molto più profondo di qualsiasi parola, domanda o argomento; va molto oltre il gioco politico, sociale e morale che l'accompagna. In larga misura, indebolisce questo gioco, lo ridicolizza, per la sua arroganza nel cercare di controllare ciò che non è sotto il suo controllo.

La morte di Khader Adnan, prima di essere una dichiarazione politica, è una dichiarazione umana esistenziale sui limiti del potere, sullo spirito umano, sul potere del desiderio di libertà. La sua morte pone anche una domanda fondamentale: se la vita non può essere vissuta correttamente, vale la pena di essere chiamata vita?

Ecco perché questa morte, il modo in cui è avvenuta, tutto ciò che esprime, è forse anche uno sguardo penetrante su ciò che si sta accumulando nelle menti, nello spirito e nelle anime di milioni di persone che vivono sotto la nostra Occupazione: la disperazione, la mancanza di fiducia, di speranza, di futuro, la sensazione di non avere nulla da perdere. Abbiamo tutto questo davanti e non possiamo continuare a ignorarlo ancora per molto.


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