Diletta Bellotti : Nella Palestina occupata, anche la memoria rischia di essere cancellata



Dall’inizio del 2023, in Cisgiordania, sono stati uccisi più di centodieci palestinesi dall’esercito israeliano (fonte: The New Arab). Potrei riportare altre dieci, cento statistiche per fotografare la realtà dell’apartheid in Palestina; potremmo ripercorrere insieme il tanto atteso report di Amnesty International. Potrei raccontare una storia «di vita vera» e ne potrei scegliere una qualunque per commuovervi, fare un po’ di pornografia del dolore in quei dieci-quindici minuti mediatici concessi: solo quando si bombarda eccessivamente Gaza, solo quando non ci stanno altre questioni «più pressanti» da coprire.


Potrei parlarvi dell’indagine della Corte penale internazionale nei confronti di Israele per crimini contro l’umanità, della consueta irruzione violenta nelle moschee durante il Ramadan, fotografare qualche bambino che ha un’apparenza degna della nostra pietà: esotico, ma non troppo, il giusto per poterci riconoscere nel suo dolore.

Potremmo leggere saggi e articoli per radicalizzarci, ascoltare centinaia di artisti e intellettuali che hanno preso posizione; potremmo imparare a schivare i servizi in tv, ridere, con profondo disgusto, della stampa che prende la paghetta, potremmo dimenticare quello che ci hanno insegnato a scuola. Potremmo boicottare, disinvestire e sanzionare, imparare dalle università che hanno lottato per interrompere la collaborazione con l’Università di Ariel, costruita sui territori occupati illegalmente. Possiamo e dobbiamo fare molto, tutto il possibile, come alleati di un popolo in lotta contro uno Stato coloniale. Eppure, oggi, niente mi sembra più necessario che proteggere a ogni costo la memoria di quello che è, creare un luogo dove le voci di chi è oppresso resistono per sempre: una terra sempre fertile per la liberazione, quando arriverà.

Settantacinque anni fa iniziava la Nakba, la «catastrofe», l’inizio dell’occupazione sionista. L’inizio anche di quello che Ilan Pappé, ne “La pulizia etnica della Palestina”, chiama «memoricidio». La storia della Nakba è fortemente orale, assente, per lo più, nella narrativa occidentale pregna di propaganda sionista, sia a destra sia a sinistra. Come un sole all’orizzonte, il popolo palestinese sparisce progressivamente dalle pagine occidentali. Dura da decenni questo tramonto.

Sono settantacinque anni che l’orizzonte tenta di fagocitare il sole: settantacinque anni di pulizia etnica, di apartheid, di raid militari, di bombardamenti, di armi chimiche, di embargo, di checkpoint, di risoluzioni e promesse, di menzogne. Ogni anno, chi è al potere, confuta un altro po’: un’altra data, un altro dato. Parlano di pace e democrazia in Medio Oriente, non sapendo niente della prima né della seconda, strumentalizzando e distorcendo la verità a loro piacimento, mentre stringono accordi e finanziano crimini di guerra. Lo scrittore Zellie Imani scrive sul suo blog che «per chi opprime, pace non significa assenza di violenza, ma significa l’assenza di una risposta alla sua violenza».

Sono settantacinque anni che l’orizzonte tenta di fagocitare il sole: militari che smuovono montagne intere, anticipano la notte, colonizzano anche il cielo. Ci sono delle colline dove ancora batte il sole. Un sole che nel suo moto rigoroso non può essere arrestato: tengo a mente l’Algeria, anche la Palestina un giorno sarà libera. Come recita Rafeef Ziadah: «Scriverò i loro nomi all’infinito, finché tutto il linguaggio non irrompe, come fa la luce del giorno».



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