Francesca Albanese risponde a REPUBBLICA: Francesca Albanese: "Mai stata antisemita. Le mie critiche riguardano solo l'occupazione israeliana"
NEW YORK - Francesca Albanese, relatrice speciale del Consiglio per i diritti umani dell'Onu sulla situazione nel territorio palestinese occupato, risponde con questa intervista alle critiche ricevute nei giorni scorsi per i suoi commenti.
Nel 2014 lei aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una lettera aperta, in cui scriveva che "America ed Europa, soggiogati dalla lobby ebraica gli uni, e dal senso di colpa per l'Olocausto gli altri, restano al margine e continuano a condannare gli oppressi - i palestinesi - che si difendono con i mezzi che hanno (missili squinternati) invece di richiamare Israele alle proprie responsabilità secondo la legge internazionale". Nei giorni scorsi Times of Israel le ha chiesto di commentare questa lettera, e lei ha risposto così: "Alcune delle parole che avevo usato, durante l'offensiva israeliana a Gaza del 2014, sono state infelici, analiticamente inaccurate e involontariamente offensive. Le persone commettono errori. Prendo le distanze da quelle parole, che non userei oggi, né ho usato come Special Rapporteur". Perché aveva usato quelle parole nel 2014, e perché ora dice che erano analiticamente inaccurate e non le userebbe più?
"Il mio messaggio del 2014 era un appello accorato e personale all'arcivescovo della mia diocesi, al fine di sollecitare donazioni per UNRWA, l'agenzia per cui avevo lavorato fino a qualche tempo prima, per il suo operato a Gaza. Il contesto, immancabilmente tralasciato dai critici, era quello di una violenta offensiva militare (la terza in cinque anni) che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi, tra cui 550 bambini, alla quale la risposta dell'Occidente tardò a farsi sentire. Oggi non userei quelle parole perché, vista l'allarmante attualità dell'antisemitismo, si prestano a strumentalizzazioni, soprattutto da parte di chi prova indebitamente ad assimilare l'ebraismo all'agenda politica di uno stato. Dal punto di vista della protezione dei diritti umani, è fondamentale che l'ebraismo nel mondo non sia associato alle politiche dei governi di Israele, o indicato in alcun modo come corresponsabile di esse. Per questo trovo preoccupante che molte forze politiche israeliane, oggi forze di governo, provino ad accrescere i propri consensi con norme, politiche e retoriche di stampo etno-nazionalistico.Ho dunque preso le distanze da quelle mie parole senza alcun ripensamento, perché oggi ne comprendo chiaramente le implicazioni. Chiarito questo, ci tengo a ribadire che nel mio post non vi fossero indicazioni di alcuna mia generalizzazione su ebraismo ed ebraicità, né tantomeno riferimenti a una qualsivoglia cospirazione ebraica internazionale (che sarebbe sì un'espressione antisemita e in quanto tale intollerabile). Il mio riferimento, pur se mal formulato, era in tutta evidenza a gruppi di pressione organizzati che, dentro i rapporti di forza politici interni agli Stati Uniti, cercano di influenzare l'amministrazione americana su una questione geopolitica precisa: la questione di Israele e Palestina. Vi sono gruppi di pressione di ebrei statunitensi che lottano per la giustizia e i diritti fondamentali dei palestinesi, così come vi sono gruppi di pressione che sostengono l'occupazione israeliana a spada tratta e con spregio di ogni raccomandazione delle istituzioni internazionali. Ciò ovviamente non autorizza a generalizzazioni etniche o religiose. Io sono in dialogo con molte voci dell'ebraismo critico, in Israele ed in tutto il mondo. Ciò che ci accomuna è un senso di inscindibilità morale tra lotta contro l'antisemitismo e lotta contro il razzismo e la discriminazione anti-palestinesi. Mi ha commosso l'ondata di solidarietà dimostratami da tanti di questi esponenti sin dalle prime ore del recente attacco contro di me e il mio mandato (nel solco di un costante tentativo di delegittimazione a cui esso viene sottoposto fin dalla sua istituzione). Particolarmente toccanti sono state le parole dello storico Israeliano Avi Shlaim, che in una lettera aperta a mia difesa, scrive: "Oggi è Israele ad essere sul banco degli imputati, non la relatrice delle Nazioni Unite. Albanese non merita altro che sostegno per il coraggio e la dedizione dimostrati nell'adempimento del suo mandato ONU.... I tre principali pilastri dell'ebraismo sono la verità, la giustizia e la pace. Albanese incarna questi valori ad un livello straordinariamente alto. E ci saranno molti ebrei in tutto il mondo che, turbati dall'allontanamento di Israele da questi valori ebraici fondamentali, avranno motivo di ringraziarla per averli sostenuti".
"L'accostamento era tra pratiche persecutorie e di violenza. Un post Facebook non consente di articolare discorsi complessi e quel post ne è l'esempio perfetto, ma non si possono etichettare tutti gli accostamenti come automaticamente antisemiti. Ad esempio faremmo un torto alla storia se censurassimo il dibattito sulla prossimità tra alcuni leader sionisti e il fascismo europeo. Fu proprio Primo Levi, ad esempio, a notare come Jabotinsky, figura di spicco dell'idea di stato ebraico in Palestina nei primi anni del '900, si autoproclamò "fascista" e fu interlocutore di Mussolini. Il suo allievo Menachem Begin, leader di una brigata sionista terrorista (Irgun) fu poi primo ministro di Israele durante la guerra in Libano. Come denunciarono molti intellettuali dell'epoca, tra cui Albert Einstein e Hannah Arendt in una lettera pubblica al New York Times datata 2 Dicembre 1948, Begin e le azioni del suo movimento "terrorista" (cit.) in Palestina, come il massacro di civili arabi di Palestina nel villaggio di Deir Yassin, vicino Gerusalemme, del 9 Aprile 1948, erano azioni ispirate da un partito politico "molto simile nella sua organizzazione, nei suoi metodi, nella sua filosofia politica e nelle sue rivendicazioni sociali ai partiti nazisti e fascisti" (cit.)".
Cosa risponde a chi dice che questi suoi post sono antisemiti?
"Mi sono sempre battuta contro ogni forma di razzismo, infatti rifiuto tutti gli stereotipi a sfondo antisemita. In quanto difensore dei diritti umani, ho la responsabilità di non usare né dare adito a tali stereotipi. La lotta contro l'antisemitismo è stata al centro del mio attivismo sin da quando ero all'università, quando guidai persino una intensa campagna all'interno della facoltà di Giurisprudenza che intendeva affiggere una lapide commemorativa a Giovanni Gentile (ministro dell'Istruzione sotto Mussolini, che firmò le leggi razziali) in nome del rispetto per le vittime e le loro famiglie. Andai persino a disturbare l'allora Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Elio Toaff (in visita a Pisa), perché sostenesse quella battaglia studentesca contro la celebrazione di un filosofo che aveva aderito al fascismo e non aveva fatto nulla contro l'antisemitismo. Vede, la lotta contro l'antisemitismo, non è in alcun modo in contraddizione con la difesa dei diritti umani ed il perseguimento della giustizia nel territorio palestinese occupato. A mio avviso, entrambi fanno parte della stessa battaglia per i diritti umani in cui sono impegnata da oltre vent'anni".
Ritiene che l'antisemitismo sia un problema ancora esistente, e come andrebbe affrontato?
"Assolutamente sì. Lo è, ed è doloroso constatare che dopo tutto ciò che il popolo ebraico ha sofferto per secoli, il fenomeno sia così mal compreso. Un problema serissimo oggi è capire cosa sia l'antisemitismo nella nostra epoca, nelle nostre società, soprattutto occidentali: la discriminazione contro gli ebrei appartiene indissolubilmente alla nostra parte di mondo; e poi identificare come combatterlo, attraverso la sensibilizzazione prima di tutto, a partire dalle scuole, e all'interno di una cornice di formazione contro ogni forma di discriminazione e razzismo".
In un'intervista rilasciata a "Altreconomia", ha detto che "lo stato di Israele è stato molto efficace a far passare l'equazione "resistenza uguale terrorismo". Ma un'occupazione necessita chiaramente violenza e ne genera a sua volta". Non teme che queste parole possano incitare o giustificare l'uso della violenza?
"Non lo temo, e sarebbe pura diffamazione paventare una tale accusa. Anzitutto mi riferivo alla criminalizzazione delle molteplici forme di resistenza non violenta e mobilitazione per i diritti umani che Israele reprime in spregio ai principi dello stato di diritto. Pensi alla vicenda delle stimate organizzazioni palestinesi per i diritti umani colpite da accuse di "terrorismo" e da misure gravissime, condannata da centinaia di studiosi, università, organizzazioni e governi in Europa e nel mondo. Piuttosto che incitare alla violenza, io sono impegnata a difendere lo spazio di azione pacifica della società civile palestinese. Ci sono poi le indicazioni del diritto internazionale, che la mia funzione di giurista mi impone di richiamare. L'articolo primo, quarto comma del Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, riconosce "i conflitti armati nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l'occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell'esercizio del diritto dei popoli all'autodeterminazione consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati in conformità della Carta delle Nazioni". La Risoluzione dell'Assemblea Generale ONU 37/43 riafferma "la legittimità della lotta dei popoli per l'indipendenza, integrità territoriale, unità nazionale e liberazione da dominazione coloniale e straniera e da occupazione straniera attraverso ogni strumento a loro disposizione, inclusa la lotta armata". Ancora una volta: non si tratta di incitare alla violenza. Si tratta di riconoscere che popoli sottoposti alla violenza coloniale rispondono, in accordo al quadro normativo e al consenso internazionale, anche attraverso l'uso della forza. Detto ciò, ci tengo a sottolineare, come ho già fatto in separata sede, che il quarto comma dell'Articolo 1 del Protocollo Aggiuntivo non solo afferma la legittimità dei movimenti di liberazione ma afferma anche che sia questi movimenti sia il potere coloniale e/o occupante (nel caso di Israele /Palestina, Israele si qualifica sia come potere occupante che coloniale) devono aderire alle regole del diritto umanitario internazionale, tra cui i principi fondamentali dell'uso proporzionato della forza armata e l'assoluta proibizione di attaccare civili come oggettivi militari. Di conseguenza, ogni attacco indiscriminato contro civili, che siano palestinesi o israeliani, che provenga da movimenti di liberazione palestinesi o dall'esercito d'Israele, sono illegali e continuo a condannarli".
Il codice di condotta del suo mandato richiede di evitare "doppi standard e politicizzazione" delle questioni trattate, agendo con "integrità, probità, imparzialità, onestà e buona fede". Ritiene che i suoi commenti siano compatibili con questo codice?
"Quali commenti? Quelli offerti nel corso del mio mandato? Assolutamente sì. E se ritiene che non sia così mi faccia un esempio. Non si adducano le mie critiche alle pratiche di Israele che violano i diritti umani come esempio di parzialità. Israele è la potenza occupante nel territorio occupato e opera al di fuori di ciò che è permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a "relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele". Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse nel territorio palestinese occupato da chiunque, incluso le autorità palestinesi".
Nella sua risposta a "Times of Israel" ha aggiunto che "dopo questo chiarimento, la nostra attenzione non dovrebbe essere distratta dalle pratiche statali illegali che causano sofferenze a milioni di persone e negano di diritti umani su base quotidiana nei territori palestinesi occupati". A cosa si riferiva?
"Mi riferivo ai 217 palestinesi, tra cui 53 bambini, e i 10 Israeliani uccisi nei territorio Palestinese occupato nel 2022, alle città palestinesi della Cisgiordania sotto assedio per settimane, agli 800 prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa - senza accusa né processo - oltre ai quasi attualmente 4000 nelle carceri israeliane a seguito di condanna su base di leggi draconiane, molti dei quali minori, alla violenza continua da parte dei coloni e dei soldati israeliani contro i palestinesi, che si consumano nell'impunità quasi assoluta. Mi riferisco a tutto l'apparato coloniale che Israele ha costruito negli ultimi 55 anni, che continua ad opprimere il popolo palestinese nel lembo di terra che il consenso internazionale ha confermato essere per lo Stato di Palestina. Come Lei sa Israele è sotto indagine della Corte Penale Internazionale per molte di queste pratiche".
Nel suo primo rapporto ha scritto che "il colonialismo, un fenomeno spesso presentato come "progetto di civilizzazione" e storicamente imposto dai "paesi occidentali" su quelli del "terzo mondo", è stato realizzato attraverso la subordinazione culturale dei nativi, lo sfruttamento economico della loro terra e delle loro risorse, e il soffocamento delle loro rivendicazioni politiche". Lei ritiene che la creazione dello Stato di Israele sia stata un atto di colonialismo?
"Io mi occupo del territorio che Israele occupa da 55 anni: Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza. In questo territorio Israele mantiene un'occupazione illegale, che si è tramutata vieppiù in un regime di apartheid, come conseguenza diretta ed inevitabile di un progetto coloniale. Come riconosciuto dalla comunità internazionale, Israele costruisce insediamenti coloniali illegali acquisendo terra, sfollando la popolazione palestinese (che nel caso del territorio palestinese occupato include anche un 40% di palestinesi scacciati dall'attuale Israele in occasione della sua creazione e consolidamento come stato, oltre 75 anni fa) e ammassandola in riserve (zona A e B in Cisgiordania, e Gaza), annettendo illegalmente il suo territorio, depredandola delle proprie terre e risorse (acqua, terra, risorse minerali e petrolifere), e punendo e talvolta criminalizzando qualsiasi manifestazione di identità culturale e politica della popolazione palestinese. Queste pratiche coloniali non sono pratiche di frange estremistiche, ma come sappiamo sono supportate dagli apparati statali".
Lei ha detto che "senza voler fare facili equazioni che spesso mi causano molti problemi, così come tragica, terribile, inenarrabile è la tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico con la Shoah, così per i palestinesi la Nakba rappresenta lo sgretolamento del tessuto connettivo di un popolo e lo sgretolamento fisico, istituzionale e la rottura di rapporti famigliari". Questo dichiarazioni la espongono alla critica di mettere Shoah e Nakba sullo stesso piano, come risponde?
"È lapalissiano che non abbia fatto un'equazione. Ho fatto una considerazione sul nodo storico che lega queste due tragedie, chiarendo sempre che l'orrore e l'efferatezza dell'Olocausto siano stati senza precedenti. La negazione dell'interconnessione tra esse e della condizione palestinese come condizione di "vittima tra le vittime" è un ostacolo alla soluzione della questione".
Ritiene che il negoziato di Oslo sia stato un approccio sbagliato alla questione palestinese e perché?
"Un negoziato tra una potenza occupante e coloniale e l'entità che tale potenza occupa e colonizza non può essere definito come giusto ed equo. Il risultato dimostra infatti i limiti degli Accordi di Oslo, chiaramente usati dalla parte con maggiore potere per perseguire i propri interessi politici. Un popolo sotto occupazione e colonizzazione non dovrebbe essere messo in una posizione di negoziare la propria libertà da una costellazione fondamentalmente illegale. Gli Accordi di Oslo non possono essere interpretati in violazione del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese, che è una norma di jus cogens di diritto internazionale, e dunque qualsiasi accordo che neghi tale diritto è da ritenersi invalido".
Le raccomandazioni con cui conclude il suo rapporto chiedono tra le altre cose la fine immediata dell'occupazione israeliana, l'invio di una forza di pace internazionale e un'indagine sugli abusi dei diritti umani. Ritiene che la soluzione dei due stati sia ancora possibile, o cosa suggerisce in alternativa?
"La fine dell'occupazione militare è richiesta dalle Nazioni Unite sin dal 1967 ed è perentoria ai sensi del diritto internazionale. Tale diritto vieta tassativamente l'acquisizione di territorio attraverso la "conquista". Quanto ad una possibile "soluzione": nel territorio comprendente Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, il popolo palestinese ha il diritto di scegliere il proprio destino, politico, economico, sociale e culturale. Il consenso internazionale è che vi siano due stati, ma perché questo si materializzi, Israele deve ritirare le truppe e il sostegno alle colonie. I coloni che intendano restare in Cisgiordania, saranno una minoranza nello Stato di Palestina e soggetti alle sue leggi. Nel frattempo però, lo Stato di Palestina, è frammentato da muri, colonie, checkpoint, permessi e altre barriere invisibili e da una capillare struttura - fatta di strade, mezzi di trasporto, reti idriche e elettriche, per citare alcuni esempi- che serve solo e soltanto i coloni. Tutto ciò rende la piena realizzazione di uno Stato palestinese indipendente impossibile. Il compito della comunità internazionale è quello di liberare il popolo palestinese sotto occupazione dal colonialismo israeliano affinché esso possa realizzare il proprio diritto all'autodeterminazione e dunque scegliere la propria forma di unità politica, nel totale rispetto del diritto internazionale e soprattutto dei diritti umani".
Se gli israeliani accettassero di mettere fine all'occupazione, ritiene che sarebbe necessario poi costituire un meccanismo per garantire la sicurezza dello Stato ebraico, e il riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi arabi?
"L'occupazione, il regime di apartheid e il dominio coloniale che Israele mantiene dal 1967 sul territorio vanno smantellati in punto di diritto, non come concessione graziosa dello Stato di Israele. Nel momento in cui cesseranno queste gravi forme di dominio, sarà più facile discutere della sicurezza di tutti i gruppi che si trovano nell'area. Senza la fine delle ingiustizie strutturali non ci potrà essere sicurezza per nessuno".
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