Gideon Levy: "Israele, una tirannia che si spaccia per democrazia" di Umberto De Giovannangeli
Una nota personale. Conosco Gideon Levy da oltre trent’anni. Da quando, allora per Rinascita, iniziai a seguire, ere il dicembre dell’87, la prima Intifada, la “rivolta delle pietre”, una sollevazione popolare che riproposte all’attenzione del mondo la causa palestinese. Una cosa ho imparato conoscendolo sul campo. Levy non è solo un maestro di giornalismo. E’ un uomo coraggioso. Capace di andare controcorrente affermando verità scomode. . Gideon Levy, firma storica di Haaretz, è una coscienza critica d’ Israele. E come tale si esprime anche sulle elezioni di martedì prossimo. Con una tesi degna del miglior Gideon: una democrazia non si definisce dal voto. Ma da ben altro. E quel “altro” fa si che Israele non sia più una democrazia.
Scrive Levy: “Ridete, ridete di tutti i miei sogni”, scriveva il poeta Shaul Tchernichovsky. Le elezioni di martedì in Israele non sono elezioni politiche e quindi non sono democratiche. Il Sudafrica dell’apartheid ha subito lo stesso inganno: il regime è stato definito come una democrazia parlamentare e successivamente come una democrazia presidenziale. Le elezioni si tenevano nel rispetto della legge, con i partiti National e Afrikaner che formavano una coalizione. Solo una cosa separava il Sudafrica dalla democrazia: le elezioni erano destinate solo ai bianchi.
“Ridete, ridete di tutti i miei sogni”. Anche in Israele, solo i bianchi – o l’equivalente israeliano – parteciperanno alle elezioni. Attualmente Israele governa oltre 15 milioni di persone, ma a 5 milioni di loro viene impedito di partecipare al processo democratico che sceglie il governo che gestisce le loro vite. La mascherata con cui Israele gioca alla democrazia dovrebbe finalmente finire con uno smascheramento. Non è una democrazia. Un regime in cui le elezioni si tengono solo per i bianchi, cioè gli ebrei, o per coloro che hanno una cittadinanza che non è concessa a tutti i sudditi, compresi gli autoctoni che vivono sotto la regola permanente che si applica alla loro terra, non è una democrazia.
Quando un’occupazione smette di essere temporanea, definisce il regime dell’intero Paese. Non esiste una democrazia parziale. Anche se c’è democrazia da Dan a Eilat, il fatto che tra Jenin e Rafah ci sia una tirannia militare infanga il regime dell’intero Paese. È incredibile come per decenni gli israeliani abbiano consapevolmente mentito a se stessi, proprio come i bianchi nei partiti degli afrikaner. Qaddum e Kedumim, due villaggi adiacenti, vivono fianco a fianco. Qaddum esiste dal II secolo d.C. e attualmente conta 3.000 abitanti. Kedumim esiste da meno di 50 anni e conta oggi 4.500 abitanti. Solo alcune centinaia di metri separano le due comunità. Il villaggio ebraico è stato costruito sulle terre di quello palestinese, soffocando il villaggio quando la strada di uscita da Qaddum è stata bloccata da Kedumim. Martedì voteranno solo gli abitanti di Kedumim. Gli abitanti di Qaddum resteranno a casa. Come se non bastasse, saranno sottoposti a un ordine di chiusura, per garantire la sicurezza della democrazia. Il destino dei residenti di Qaddum sarà influenzato dai risultati delle elezioni molto più di quello dei loro vicini di Kedumim. Nessun governo oserà danneggiare Kedumim. Qualsiasi governo continuerà a danneggiarla e a tormentare i suoi residenti. Ma Qaddum non ha voce, non ha diritto di voto, non ha libertà di scelta né diritto di influenza. Un’elezione in cui solo una comunità può votare, mentre alla sua vicina più anziana e autoctona è vietato partecipare, è antidemocratica. Come possono gli israeliani ingannare se stessi in modo così sfacciato? Come si può dire che questo non è l’aspetto dell’apartheid? In nome di quale valore i residenti di Kedumim hanno il diritto di votare, mentre questo diritto è negato ai residenti di Qaddum? Gli ebrei di Kedumim sono forse superiori ai palestinesi di Qaddum? Dopo tutto, condividono la stessa terra e vivono sotto lo stesso governo. Ma la propaganda sionista ha sempre una risposta appropriata a qualsiasi male perpetrato in suo nome. Partecipare alle elezioni in un regime di apartheid è problematico, quasi impossibile. Tuttavia, martedì ci vestiremo tutti da democratici e andremo a votare. Nessuna persona di coscienza può votare per chi sostiene la continuazione dell’attuale regime, in cui parte della popolazione di questo Paese vive sotto una tirannia militare. Nessun vero democratico può votare per un partito che ha inciso sulla sua bandiera la continuazione della superiorità ebraica, che è ciò che il sionismo comporta. Tutti i partiti ebraici, da Otzma Yehudit a Meretz, sostengono la continuazione di uno Stato ebraico, che osa chiamarsi democrazia, all’interno di una realtà binazionale. Per questo motivo non possono essere presi in considerazione da nessuno che prenda una decisione coscienziosa. Non è facile dirlo, è difficile scriverlo, ma ogni voto per un partito sionista è un voto per la continuazione di una tirannia che si spaccia per democrazia” Termina così il j’accuse di Levy.
Una lezione che non dimentico
E quella “impartita” da Levy. Che essere veri amici d’Israele non significa avallare ogni scelta compiuta da Tel Aviv ma guardare con inquietudine all’affermarsi di una etnocrazia, vale a dire di una deriva etnico-identitaria del sistema democratico, che pone al centro l’essere ebreo all’essere israeliano, tralasciando, peraltro, il fatto che cittadini di Israele sono anche l’1,2 milioni di arabi israeliani (oltre il 20% della popolazione complessiva). Questa deriva, è bene sottolinearlo subito, è molto più pericolosa delle esternazioni del presidente palestinese, perché mina alle fondamenta uno dei pilastri del pensiero sionista: quello di fare d’Israele non solo il focolaio nazionale del popolo ebraico ma un modello sociale e politico inclusivo, in altri tempi si sarebbe detto “socialista”. L’etnocrazia è, in primo luogo, la sanzione della sconfitta del sionismo e il trionfo del revisionismo di Zeev Jabotinsky, non a caso il punto di riferimento ideologico della destra nazionalista israeliana E’ di questo che dovremmo discutere, è su questo snodo cruciale che vale la pena, se è il caso, dividerci. La “Questione israeliana” ingloba ma non si esaurisce nella vicenda palestinese e né può avere come unica chiave di lettura quella della sicurezza minacciata. Certo, quando il gioco si fa duro, i falchi etnocratici tirano fuori il loro evergreen: siamo un Paese circondato da nemici, gli arabi possono permettersi di perdere mille battaglie ma resteranno sempre in piedi. Israele, no. Se perde una guerra, rischia di scomparire dalla faccia della terra. Ma ridurre i processi che negli ultimi cinquant’anni hanno trasformato profondamente, radicalmente Israele, al solo dilemma pace/guerra, si sminuisce la portata di una “questione” che rimarrà in vita, ne sono convinto, anche il giorno in cui la “questione palestinese” avrà finalmente una soluzione politica. Prima che nelle urne, la vittoria della destra etnocratica in Israele, è avvenuta sul piano culturale, sull’aver plasmato la psicologia di una Nazione a propria immagine e somiglianza
. La destra ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d’Israele, su Medinat Israel, lo Stato d’Israele. In questa visione, la Sacra Terra , proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte. Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Ygal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al “capo dei criminali palestinesi”, Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita, un interlocutore di pace. Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell’agire umano. E’ all’avanguardia mondiale quanto a start up, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica e portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina, dell’innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri. I Palestinesi, in questo, sono un incidente di percorso, con cui occorre fare i conti ma che mai hanno rappresentato un elemento di riflessione su se stesso, su Israele.
L’etnocrazia, a ben vedere, è l’altra faccia del regime di apartheid instaurato di fatto nei Territori palestinesi occupati. L’etnocrazia crea identità, definisce una visione del ruolo del popolo ebraico nel mondo, indica una Missione da compiere. L’etnocrazia inizia quando Israele riflette sulla vittoriosa Guerra dei Sei Giorni. Nel corso di questi anni, penso, e mi onoro di questo, aver maturato un rapporto di confidenza e di amicizia con diversi protagonisti della vita politica e culturale d’Israele. Tra questi, c’è Yael Dayan, la figlia di uno dei miti d’Israele, l’eroe della Guerra del ’67, il generale con una benda all’occhio, Moshe Dayan.
.Nel corso di un nostro incontro a Tel Aviv, Yael, allora parlamentare laburista, mi confidò i tormenti del padre subito dopo aver conquistato Gerusalemme, aver fatto sventolare la bandiera con la Stella di David sul Muro del Pianto. Il generale Dayan, allora ministro della Difesa con Yitzhak Rabin capo di stato maggiore di Tsahal, avrebbe voluto ripiegare dai territori conquistati in ragione della interpretazione che si stava affermando su quella vittoria. La vittoria, secondo i sostenitori del revisionismo sionista di Jabotinsky, non era dovuta alle capacità e al coraggio dei soldati e degli ufficiali di Tsahal: costoro erano solo gli strumenti di un disegno messianico che Dio aveva voluto per il popolo eletto. E un popolo eletto non poteva, non doveva “contaminarsi”. Ecco allora farsi avanti una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte ma che scandiscono la quotidianità di oltre 400mila cittadini-coloni.
Lo “Stato di Giudea e Samaria”, è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. L’affermarsi di questo “Stato dei coloni” rappresenta la sconfitta storica del sionismo. Identità ebraica e sistema democratico: erano i due pilastri su cui si reggeva l’utopia sionista, quella dei padri della patria. Settantaquattro anni i dopo la fondazione dello Stato d’Israele, l’uno, l’identità ebraica assolutizzata e costituzionalizzata, ha finito per minare l’altro: l’idea di una democrazia inclusiva Ed è quello che Gideon Levy denuncia, con coraggio e indipendenza di giudizio. Israele è oggi una tirannia che si spaccia per democrazia. Ma questa verità non la leggerete mai sulla stampa mainstream italiana. Quella per cui essere amici d’Israele è plaudire sempre, giustificare sempre, e ripetere il mantra, smontato da Levy, d’Israele come unica democrazia in Medio Oriente.
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