Il Giorno della Memoria è il momento di tradire la nostra israelità (FONTE EBRAICA ISRAELIANA)
Questo giorno rappresenta il modo in cui il militarismo e l’Apartheid sono radicati nella nostra coscienza. Solo quando saremo pronti a tradirlo possiamo sognare la pace.
Fonte: english version
Di Yuli Novak, 4 maggio 2022
Immagine di copertina: Yuli Novak parla durante la cerimonia annuale del Giorno della Memoria israelo-palestinese, Tel Aviv, 3 maggio 2022. (Avivomer Neuberg/Flash90)
Il 3 maggio 2022, centinaia di persone hanno partecipato alla 17a cerimonia annuale del Giorno della Memoria israelo-palestinese. L’evento, che è stato presentato come “un’opportunità per israeliani e palestinesi di soffrire assieme e di essere forti nel chiedere la fine del ciclo di violenze”, si è svolto in un luogo segreto a Tel Aviv a causa di problemi di sicurezza ed è stato trasmesso online con oltre 200.000 sintonizzati da tutto il mondo.
Il discorso principale della serata è stato pronunciato dall’attivista e autrice di sinistra israeliana Yuli Novak, ex direttrice esecutiva di Breaking the Silence. È stato tradotto da Libby Lenkinski ed è riportato di seguito per intero.
Questo giorno, il Giorno della Memoria, più di ogni altro giorno, mi fa sentire come se appartenessi a questo posto. Mi fa sentire israeliana.
Essere israeliani significa crescere con la sirena e con i brividi che l’accompagnano. Da bambino, cerchi soprattutto di strozzare in gola una risatina imbarazzata. Ma abbastanza rapidamente si impara, e poi nel momento in cui suona, tutto accade automaticamente: il corpo che si irrigidisce, il cuore che si ferma, gli occhi che per un attimo si chiudono. E poi i volti, i nomi, le immagini che ti passano per la testa. Con il tempo si sa già esattamente come ricordarli tutti.
Ma essere israeliani non è solo ricordare questa morte, è onorarla, apprezzarla, sentirla.
La storia di Yom Hazikaron (Giornata della Memoria Israeliana) è, per molti versi, la storia della nostra israelità. Ed è anche la base e la giustificazione dell’ordine politico che rende possibile la nostra vita su questo pezzo di terra.
È una storia che è sempre più personale e sempre più politica. Siamo nati con essa, in essa, è sempre con noi.
E con essa anche la paura. E con questa, la solitudine.
La nostra storia israeliana è una storia di sopravvivenza, di sacrificio e di separazione.
È una storia di “noi” e “loro”, con chiare linee di divisione: noi siamo sempre l’oasi nel deserto, e loro sono sempre i barbari che stanno arrivando. E sono così tanti. E noi, siamo così pochi.
La storia di Israele è la storia di una minoranza perseguitata, sempre sola nel mondo. Come una specie di predestinazione dei tempi antichi. Siamo un popolo che vivrà da solo.
La storia israeliana è una storia di paura esistenziale. Essere israeliani significa avere paura: delle guerre, dei bombardamenti, degli attacchi terroristici. Avere paura degli arabi che fanno attacchi terroristici. Avere paura degli arabi. Avere paura dell’arabo. Avere paura di tutti gli arabi.
E la tragedia della storia sta diventando sempre più profonda e complessa. Perché la nostra risposta alla solitudine e alla paura è la vita da dominatori: armare sempre più ragazzi, costruire più muri, comprare più aerei.
Nella storia israeliana la forza è sempre la forza militare. E il potere è solo il dominio.
Questo giorno, Yom Hazikaron, è il giorno che meglio rappresenta questa israelità: militarista, combattente, maschile e machista. Questo giorno è così importante per noi, che ogni tentativo di re-immaginarlo, di collocare la memoria in una narrazione diversa, anche il semplice tentativo, quello innocente, di piangere insieme, mina l’identità israeliana e l’ordine politico in Israele. E noi, qui, che stiamo cercando di offrire una diversa esperienza di memoria, siamo etichettati come “traditori”, ed è giusto che sia così.
La volontà di tradire la storia israeliana fatta di paura e solitudine è ciò che rende possibile questa serata, da 17 anni di fila. In questo giorno, poiché è il giorno più difficile per farlo, il tradimento, nel suo senso più profondo, nel suo senso imprescindibile e nel suo senso trasformativo, si carica di un significato positivo. È ciò che ci permette di essere qui insieme, e di provare, accanto al dolore, anche un senso di orgoglio. Perché questo non è un tradimento di noi stessi, solo della storia in cui siamo cresciuti. Specialmente in questo giorno, il giorno in cui la storia israeliana raggiunge la sua massima potenza, dobbiamo insistere per rifiutarla.
E questo è davvero solo l’inizio. Per sfuggire veramente alla trappola di questa israelità, dobbiamo scegliere coraggiosamente di sopportare questo tradimento oltre questo giorno.
La realtà che richiede riparazione si diffonde nel tempo, nello spazio e nella coscienza. Non esiste solo sulla Linea Verde. E non è iniziata nel 1967. E non è solo fuori, ma esiste dentro di noi: nei ricordi, nel linguaggio, nei sogni, nei limiti dell’immaginazione. Non possiamo parlare seriamente di correggere questa realtà, prima di essere pronti a riconoscerla e ad assumerne la responsabilità.
Soprattutto in questo giorno, di fronte alla morte incomprensibile, che ci tiene svegli e ci lascia senza parole, abbiamo l’opportunità di ammettere che anche se siamo tutti vittime della stessa realtà, noi israeliani deteniamo il potere e ci assicuriamo che questa realtà continui. E nonostante il fatto che in questa sanguinosa realtà tutti perdiamo molto, ci sono quelli che perdono molto più di altri.
E soprattutto, questo è il giorno in cui ammettere che l’Apartheid e la separazione sono radicati in profondità nella nostra coscienza. Formano chi siamo e limitano chi potremmo essere. Ammettere che, nonostante il nostro desiderio di sentire il dolore delle morti israeliane e palestinesi come se fossero la stessa cosa, semplicemente non sappiamo come farlo. Ed è probabile che nella prossima guerra, proprio come quella precedente, una volta che il numero di bambini palestinesi che abbiamo ucciso aumenterà, allora come una specie di incantesimo crudele, il dolore svanirà ancora una volta da solo. E quando qualcuno ci chiederà di ricordarci che, anche così, stiamo parlando di esseri umani, sarà comunque definito un “traditore”.
E qui, un altro tradimento di cui essere orgogliosi. Il tradimento dell’indifferenza che l’israelità ci impone.
Solo quando saremo pronti a tradire, a rifiutare veramente, questa storia, allora potremo ricominciare a sognare la pace. Ma questa non sarà la pace tra uomini ricchi in giacca e cravatta che stringono la mano agli uomini e alle donne che vivono qui. Sarà una pace vera e giusta, di quelle che incarnano una nuova realtà. Una pace per tutti. Una realtà in cui riconosceremo il dolore che abbiamo causato e restituiremo ciò che abbiamo preso con la forza. Una realtà in cui tutti coloro che popolano questa terra avranno diritto a una vita piena di opportunità e libera dall’oppressione.
In questo giorno, il giorno in cui mi sento più israeliana che mai, desidero per noi che vengano altri giorni. I giorni in cui vivremo qui, in questo luogo, come ebrei, saranno molto diversi da come sono adesso. Il giorno in cui la sirena, e i brividi che l’accompagnano, saranno solo un lontano ricordo di qualcosa di solitario e pauroso, e di come una volta eravamo soli e spaventati.
Yuli Novak è un attivista israeliana. È nata e cresciuta in Israele ed è stata direttore esecutivo di Breaking the Silence tra il 2012 e il 2017.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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