GIDEON LEVY - JAMIL HA PROTESTATO CONTRO L'ESPROPRIO DELLA TERRA DI FAMIGLIA ED È STATO UCCISO DALL'ESERCITO

 Di Gideon Levy e Alex Levac - 24 dicembre 2021

L'auto sbandava da una parte all'altra mentre risaliva la strada sterrata e accidentata, il vento che vorticava e ululava intorno. I bulldozer delle Forze di Difesa Israeliane hanno già parzialmente bloccato questa strada, ma è ancora transitabile. Quando ci siamo fermati in cima alla collina, l'auto dondolava e le porte si aprivano a malapena contro il forte vento impetuoso. In effetti, la tempesta invernale di questa settimana, soprannominata Carmel, ha colpito anche la remota collina che i palestinesi chiamano Huti, un'altura di ulivi che si trova di fronte al Monte Sabih, che, con loro indignazione, è il sito dove si trova l'avamposto dei coloni Evyatar. Poche centinaia di metri separano le due colline, tra la bandiera israeliana strappata issata come provocazione su quello che i locali chiamano "Jabal al-Sabih" tra gli edifici dei coloni, e la bandiera della Palestina che anche i residenti del villaggio di Beita hanno issato come provocazione, di traverso. Due bandiere sbrindellate dal vento, una di fronte all'altra. L'enorme Menorah* di Hanukkah piantata dai coloni invasori è ancora al suo posto, insieme alla fila di roulotte e torri di guardia.
[* La Menorah è una lampada ad olio a sette bracci che nell'antichità veniva accesa all'interno del Tempio di Gerusalemme attraverso la combustione di olio consacrato.]
Il terreno sulla sommità della collina Huti è impregnato del sangue dei manifestanti palestinesi, e annerito dalle gomme che i manifestanti incendiano qui ogni venerdì. Sette residenti del vicino villaggio di Beita e uno del vicino villaggio di Yatma sono stati uccisi qui dai soldati delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nei sette mesi trascorsi da quando la veterana attivista sionista radicale Daniella Weiss e i suoi amici hanno ripreso il presidio di Evyatar a maggio. Il sito era un tempo un avamposto dell'IDF chiamato Tapuhit, costruito sulla terra di Beita. Successivamente, nel 2013, l'avamposto originale di Evyatar vi è stato costruito senza autorizzazione; fu successivamente evacuato e demolito. Oggi le strutture erette dai coloni della nuova Evyatar rimangono al loro posto, l'avamposto è attualmente disabitato, fatta eccezione per alcuni soldati che vi sono di guardia, e il sangue continua a essere versato.
L'ultima volta che siamo venuti qui è stato a settembre, per raccontare la storia dell'uccisione di un altro manifestante di Beita, Muhammad Khabisa, 28 anni, padre di una bambina di 8 mesi. Prima ancora eravamo venuti qui ad agosto, per raccontare la storia dell'uccisione di Imad Duikat, 37 anni, padre di una bambina di 2 mesi. A ancora a luglio, eravamo qui a causa dell'uccisione di Shadi Shurafi, un idraulico del villaggio, che stava riparando la valvola su una conduttura dell'acqua vicino all'autostrada quando è stato colpito a morte dalle truppe dell'IDF. Mentre a giugno abbiamo visitato il vicino villaggio di Yatma, per raccontare la storia dell'uccisione, durante la stessa serie di manifestazioni in corso, di Tareq Snobar, 41 anni, padre per soli due giorni della sua vita prima di essere ucciso. Quando è stato colpito dal fuoco dei soldati israeliani da circa 100 metri di distanza, si stava recando in ospedale per andare a prendere sua moglie e il loro figlio appena nato, Omar, per riportarli a casa. Non ci è mai arrivato.
Questo non è l'intero elenco delle persone uccise nelle manifestazioni di Evyatar. Venerdì 10 dicembre si è verificata un'ottava vittima: Jamil Abu Ayyash, falegname 31enne di Beita, sposato, senza figli.
Questa settimana ci siamo recati con due dei fratelli di Jamil, Ayyash, 43 anni, e Rami, 41 anni, a vedere il luogo in cui il loro fratello è stato assassinato. All'inizio erano preoccupati per il viaggio, per timore dell'esercito. Pochi giorni prima, mentre erano in macchina con un ricercatore sul campo per un'organizzazione per i diritti umani palestinese, due mezzi dell'esercito sono apparsi improvvisamente bloccandogli la strada; i soldati gli intimarono di andarsene.
Ayyash ha chiesto a noi e Abdulkarim Sadi
"Potete accompagnarci?" ha chiesto Ayyash ad Abdulkarim Sadi, un ricercatore sul campo per l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, che ci stava accompagnando. "Stiamo cercando di evitare problemi, in modo da poter continuare a lavorare in Israele", ha detto Rami. Alla fine i fratelli, entrambi ancora in lutto, trovarono il coraggio di andare. Ci hanno mostrato dove si erano fermati i soldati e dove si trovava il loro fratello sulla collina, secondo quanto gli era stato detto. Jamil era appena arrivato alla manifestazione quando gli hanno sparato alla testa.
I soldati e la loro vittima erano a poche centinaia di metri di distanza. Il proiettile è penetrato nella fronte di Jamil, ha creato uno stretto foro d'ingresso ed è uscito dalla parte posteriore del collo, creando una ferita molto più grave, segno che il proiettile era esploso all'interno e gli aveva spappolato il cervello. Eppure respirava ancora quando è stato evacuato da un'ambulanza, che lo ha portato di corsa all'ospedale Rafadiya di Nablus. In quel momento, suo fratello Ayyash, che vive in una delle ultime case del villaggio, vicino alla strada che porta al luogo delle manifestazioni, era nel suo cortile a lavare la sua auto, insieme alla figlia di 2 anni, Sara. La bambina, racconta, era sconvolta dal suono delle sirene ed entrambi si sono preoccupati alla vista dell'ambulanza che correva giù per la collina, e poi qualcuno nel veicolo gli ha fatto cenno di seguirli velocemente. Lasciando Sara a casa, si è precipitato in macchina a Rafadiya, dove ha saputo che l'uomo che stava morendo per le ferite riportate nell'ambulanza era suo fratello Jamil. Un altro fratello, Rami, che si trovava nel vicino villaggio di Huwara, è stato convocato d'urgenza all'ospedale di Nablus. Ha anche informato i loro genitori, che hanno raggiunto i figli.
Un ragazzo sta facendo i compiti su un tavolo nel cortile della casa della sua famiglia, nel freddo pungente. La casa si trova alla periferia di Beita, a sud di Nablus. Jamal Abu Ayyash, il padre in lutto, un contadino di 67 anni, è seduto in un angolo di una stanza, il volto cupo, con indosso un cappotto, un cappello di lana e diversi strati di vestiti. In onore degli ospiti accendono la piccola stufa elettrica, che fa ben poco per allontanare il freddo. Molto raramente vediamo case palestinesi con un sistema di riscaldamento. La madre in lutto, Hadara, 66 anni, è avvolta nel nero, il viso segnato dal dolore. La coppia aveva due figlie e quattro figli, fino alla morte di Jamil. Ala, la vedova di Jamil, non c'è.
Jamil, falegname, lavorava in un grande mobilificio ai piedi della collina su cui è stato ucciso. Poiché era l'unico dei fratelli che non lavorava in Israele, andava più spesso alle manifestazioni del venerdì, mentre i suoi fratelli non erano sempre nel villaggio. Ma anche Jamil non era un assiduo frequentatore delle manifestazioni. La precedente vittima del villaggio, Muhammad Khabisa, era anch'egli un membro dello stesso Hamula, il clan Khabisa, ma le due vittime non si conoscevano.
Jamal Abu Ayyash possiede 20 dunam/km2 di terreno agricolo sulla collina dove sorge Evyatar. La terra fu espropriata all'inizio degli anni '80 per l'istituzione dell'avamposto di Tapuhit, per non essere mai restituita, ovviamente. Dal punto in cui ci troviamo ora dall'altra parte della strada, i fratelli ci mostrano il punto di Jabal al-Sabih dove si trova la loro proprietà.
In quello che sarebbe stato l'ultimo giorno della sua vita, Jamil si alzò relativamente tardi e scese nell'appartamento al pianterreno dei suoi genitori, come faceva ogni mattina. Poi è andato nel centro del villaggio per comprare hummus e ful per colazione, e a mezzogiorno ha partecipato alle preghiere nella moschea. Non ha detto ai suoi genitori che intendeva recarsi alla manifestazione, ma partecipare alle proteste del venerdì è quasi un rito per la maggior parte degli abitanti del villaggio.
Erano passate le tre del pomeriggio quando hanno sparato a Jamil. Testimoni oculari dissero alla sua famiglia che era in piedi su una parete di roccia sopraelevata, il che lo rese un bersaglio facile per i soldati. Sua moglie, Ala, ha appreso che era stato ferito su Facebook; i fratelli e i genitori aspettavano notizie in ospedale. Gli sforzi per rianimare Jamil sono andati avanti fino alle 17 circa, poi i medici hanno informato la famiglia della sua morte. La sera stessa fu sepolto nel cimitero del paese.
L'Unità del Portavoce dell'IDF inizialmente ha negato, il giorno dell'incidente, che i soldati avessero usato munizioni letali e si è mantenuta sul generico dichiarando: "È giunta notizia dell'uccisione di un palestinese".
Questa settimana l'Unità del Portavoce ha dato questa risposta a una domanda di Haaretz: "Il 10 dicembre 2021, si è verificata una violenta manifestazione adiacente alla collina di Evyatar con la partecipazione di centinaia di palestinesi che hanno lanciato pietre e fatto rotolare pneumatici in fiamme verso le forze dell'IDF e della Polizia di Frontiera. A causa dell'evento è stata avviata un'indagine della Polizia Militare; al termine, le sue conclusioni saranno trasmesse alla procura militare. Comprensibilmente, non è possibile fornire dettagli su un'indagine in corso".
Domenica scorsa, il fratello Rami in lutto è arrivato per lavorare alla costruzione della metropolitana leggera a Ramat Gan. Uscì di casa alle 3 del mattino, come al solito, e arrivò alle 6, solo per sentire dal caposquadra druso che era stato licenziato. Semplicemente, senza alcuna spiegazione. Ci ha detto che non ha idea se questo abbia qualcosa a che fare con la morte di suo fratello. Non fece domande e tornò a casa, mortificato.
Sulla via del ritorno dalla collina dove è stato ucciso Jamil, durante la nostra visita di lunedì, mentre percorrevamo la strada sterrata verso il villaggio, due giovani, con il volto smascherato, sono spuntati da dietro gli ulivi, a pochi metri di distanza. Uno di loro raccolse un sasso e lo puntò contro di noi. A quanto pare intendeva scagliarlo contro la nostra macchina, con la targa israeliana, da distanza ravvicinata. Poi all'ultimo momento lui e il suo amico hanno notato i due fratelli con noi in macchina: i due si sono precipitati fuori dal veicolo per fermarli. Il sasso cadde a terra e il giovane sorrise imbarazzato.
Ci è stato detto che erano delle "Guardie della Collina", un gruppo attivista fondato dai giovani a Beita.
Mentre ci allontanavamo, abbiamo notato una pila di dozzine di pneumatici usati, in attesa sul ciglio della strada per la prossima dimostrazione.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell'Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l'Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.
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