Ugo Tramballi : L’Iran e la latenza nucleare
Poco meno di un anno più tardi, dopo aver ritirato gli Stati Uniti da una montagna di accordi, trattati e organizzazioni multilaterali, frutto pluridecennale dell’internazionalismo americano, Trump annunciò anche il ritiro dall’accordo che congelava il programma nucleare militare iraniano. Questa volta i metalmeccanici di Pittsburg non c’entravano: era stato l’israeliano Bibi Netanyahu a convincerlo.
In meno di un anno, Joe Biden ha riportato l’America al suo ruolo naturale, ripristinando quasi tutti gli impegni diplomatici che costituiscono una parte importante del suo ruolo di superpotenza. Nel gran numero dei casi è bastato dichiararlo, riaprire sedi di rappresentanza e nominare incaricati. Non per il nucleare iraniano: un accordo raggiunto con grande difficoltà nel 2015, ora estremamente difficile da resuscitare. E non solo perché, uscendone, Trump aveva imposto 1.500 sanzioni di varia natura all’Iran.
Lunedì a Vienna, nella sede dell’Agenzia Atomica si cercherà di riapre la trattativa fra Onu, Ue, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina da una parte, e Iran dall’altra. Per il momento gli iraniani non vogliono gli americani, considerandoli i responsabili del problema di oggi: ma a porte chiuse i due principali interessati alla questione, non hanno smesso di trattare.
Originariamente, nella comitiva internazionale che partecipa a una trattativa così importante, c’era anche l’Italia. Ma a suo tempo il Governo Berlusconi decise di uscirne, forse pensando che questo avrebbe agevolato i nostri scambi con l’Iran esportatore di petrolio.
I tentativi di normalizzare le relazioni fra Stati Uniti e Repubblica Islamica sono tra i più sfortunati nella storia della diplomazia contemporanea: quando a Teheran c’era un esecutivo aperto al dialogo, a Washington governavano i falchi; e quando erano gli Stati Uniti a cercare nuovi orizzonti, in Iran il potere era nelle mani degli estremisti. La fase di oggi appartiene al secondo caso: da qualche tempo l’Iran è governato dall’estremista Ebrahim Raisi e il dossier nucleare è nelle mani del suo ministro degli Esteri Hossain Amirabdollahian, entrambi molto diversi dai più moderati Hassan Rouhani e Mohammad Javad Zarif.
Al contrario, Joe Biden è impegnato a ripristinare la centralità americana in ogni importante questione internazionale. Il suo mantra è affermare il primato della diplomazia su quello che Barack Obama aveva criticamente chiamato ”Washington Playbook”: a ogni problema complesso la risposta deve essere militare. Già nel 1956, esasperato dal potere crescente dell’apparato militar-industriale, Dwight Eisenhower aveva esclamato davanti ai suoi generali: “Stiamo ammassando armamenti perché non sappiamo che altro fare per garantire la nostra sicurezza”. Joe Biden, per otto anni vice di Obama, sosteneva con forza che il ruolo del Pentagono nella conduzione della politica estera dovesse essere ridimensionato.
Il problema è che gli iraniani di oggi non vogliono più accettare tutti i contenuti dell’accordo originario: non siamo stati noi a respingerlo, è la facile ma in fondo comprensibile spiegazione iraniana. Il rischio che fra tre anni Donal Trump o un suo clone repubblicano possa tornare alla Casa Bianca non è così lontano. Ogni settimana The Economist e Yougov stilano un sondaggio sulle preferenze politiche degli americani. Il 16 novembre il 43% approvava l’operato di Biden, il 49 no e l’8% non sapeva.
Come assicurazione contro l’ipotesi di un ritorno di Trump o equivalente, è probabile che gli iraniani vogliano cercare di raggiungere quello che nel lessico nucleare è chiamato “threshold capability” o anche “nuclear latency”. Sono una trentina i paesi – per esempio Canada e Australia – che in questi decenni hanno raggiunto la capacità tecnologica di sviluppare un’arma nucleare ma non hanno superato la “soglia”: per non incorrere nelle sanzioni imposte a chi viola l’NPT, il Trattato sulla non proliferazione nucleare, questi paesi hanno fermato i loro programmi a qualche settimana o qualche mese dalla realizzazione della bomba.
Ma se gli iraniani non intendono tornare all’accordo del 2015, gli americani e gli altri difficilmente si accontenterebbero di una “latenza” del programma di Teheran. Grazie a Trump e Netanyahu, in questi anni – liberati dalle imposizioni dell’accordo – gli scienziati iraniani hanno arricchito al 60% 25 chili di uranio: per la bomba bisogna arrivare alla purezza del 90% L’attivismo militar-geopolitico iraniano in Medio Oriente difficilmente aiuta a convincere anche i più ottimisti delle buone intenzioni di Teheran.
Niente come l’impasse di oggi aiuta a capire quanto funzionasse l’accordo del 2015. Recentemente lo ha detto anche un ex direttore del Mossad: oggi non saremmo a questo punto se gli americani non se ne fossero andati. E’ curioso che la classe politica israeliana abbia sempre condannato l’accordo, minacciando di bombardare l’Iran; e che (contrariamente al Washington Playbook) i vertici della sicurezza e dell’intelligence lo abbiano sempre difeso: nessun accordo è perfetto ma quello era il migliore possibile.
Come spiega il New York Times, in questi ultimi venti mesi gli israeliani hanno compiuto attentati agli impianti e agli scienziati iraniani. Ma anziché fermare il programma nucleare, lo hanno accelerato e ampliato: una specie di Build Back Better di Teheran. Su questo problema Stati Uniti e Israele sono in rotta di collisione: i primi, racconta il Times, hanno spiegato ai secondi che “attacchi ripetuti agli impianti possono essere tatticamente soddisfacenti ma alla fine sono controproducenti”: complicano il negoziato già così difficile.
Il premier Naftali Bennett è stato invece minaccioso: “Se c’è un ritorno all’accordo, Israele non ne è parte e non è legato” ai suoi obblighi. Il ministro della Difesa Benny Gantz è più cauto. Nel 2015, quando era il Capo di Stato Maggiore di Tsahal, le Forze Armate israeliane, sosteneva che “l’accordo avrebbe potuto essere migliore ma il bicchiere è mezzo pieno: un ritardo di 10 o 15 anni del programma iraniano è una buona cosa”. Ma ora quell’accordo è sfumato.
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