Ugo Tramballi Israele e Palestina, battaglie elettorali


 Con la primavera, per israeliani e palestinesi arriva una grande stagione elettorale: i primi votano il 23 marzo; i secondi il 22 maggio per le parlamentari e il 31 luglio – estate inoltrata - per le presidenziali. In teoria dovrebbe essere una buona notizia.

In realtà è opinabile. “Grande stagione” è eccessivo. Forse intensa, senza specificare che l'aggettivo sia positivo o negativo. Gli israeliani voteranno per la quarta volta in poco meno di due anni. Si sono creati due grandi fronti: a favore e contro Bibi Netanyahu. Il secondo è piuttosto improbabile. Se vincesse, nascerebbe un governo Frankenstein dall'estrema destra razzista fino alla sinistra pacifista, dagli ultra-ortodossi agli atei.

È dunque probabile, e forse auspicabile, che Bibi vincerà di nuovo senza vincere: cioè che, dopo 12 anni e sette elezioni consecutive, continui a restare premier, formando una coalizione di maggioranza. Così pletorica da creare le premesse per il quinto ritorno alle urne.

Ma vorrei dedicare questo post soprattutto ai palestinesi, anche se gli israeliani voteranno prima. Vi ricordate i palestinesi? Se ne parla poco, ormai: è da tempo che non fanno notizia. Le rivolte arabe, le guerre civili, il nucleare iraniano, le smargiassate del turco Erdogan, il disastro libanese, l'immatura presunzione del principe saudita MbS, hanno tolto loro la scena. Erroneamente convinti di esserne ancora al centro, non sono più stati capaci di riprenderla.

Nel 2006, quando vinse le elezioni poco dopo la morte di Yasser Arafat, Mahmud Abbas, nom de guerre Abu Mazen, avrebbe dovuto essere presidente per quattro anni. Nuove elezioni lo avrebbero facilmente confermato per un secondo mandato. Abu Mazen è invece presidente da 15 anni e se un giorno i palestinesi avranno uno stato, stenteranno a dare di questo periodo un giudizio positivo.

“Sia per Israele che per i palestinesi è diventato una risorsa e un peso”, scrive l'Institute for National Security Studies di Tel Aviv. “Ha garantito una stabilità strategica in Cisgiordania nonostante le profonde scosse dell'ultimo decennio” nella regione; “ha permesso che le primavere arabe ignorassero i palestinesi; ha bloccato Hamas. Allo stesso tempo ha aderito a una linea politica dogmatica, perdendo le opportunità politiche” per risolvere la causa palestinese. Senza contare la corruzione e i crescenti abusi alle libertà della società palestinese, ampiamente consentiti durante il suo lungo mandato.

È probabile che anche le elezioni palestinesi abbiano un risultato scontato. Potrebbero non svolgersi affatto: come è accaduto nei precedenti 16 anni, Hamas che controlla Gaza e l'Autorità palestinese – cioè Fatah – la Cisgiordania, non si mettono d'accordo, il voto salta e Abu Mazen, che ha 85 anni, resta al suo posto, ancora a tempo indeterminato. O se si faranno il 22 maggio, Hamas vincerà a Gaza e Fatah a Ramallah, lasciando le cose come stanno.

C'è chi sostiene che i due principali partiti si coalizzeranno in una lista comune per sbaragliare le forze minori: democratici, islamisti, pacifisti. È curioso che i palestinesi abbiano deciso di adottare il proporzionale puro: uguale a quello dei vicini-nemici che ha portato gli israeliani a quattro elezioni in due anni.

Difficile immaginare cosa succederebbe alle presidenziali di fine luglio: di fronte alla mediocrità dei presunti candidati, Abu Mazen potrebbe ricandidarsi all'ultimo momento come salvatore della patria. Se non lo farà, in nome di interessi consolidati altri potrebbero falsificare il voto; addirittura organizzare un golpe, mobilitando una milizia armata.

Joe Biden che sui diritti umani ha strapazzato un alleato importante come l'Arabia Saudita, non esiterebbe a reagire. La comunità internazionale – arabi compresi – ha incominciato a non credere più a una soluzione della questione palestinese. Il presidente americano è dunque l'ultima speranza per riprendere la trattativa con Israele e salvare ciò che resta degli accordi di Oslo. Ma un ennesimo suicidio politico palestinese non sarebbe una grande novità.

Nel suo ultimo sondaggio di fine dicembre, il Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah spiega che il 50% degli intervistati crede che le elezioni saranno truccate; più della metà che la polizia palestinese si farà corrompere; la larga maggioranza che il perdente non accetterà la sconfitta. Un altro dato interessante è che i palestinesi di Gaza detestano Hamas, e quelli di Cisgiordania Fatah. Ma per forza o rassegnazione, i primi rivoteranno Hamas e i secondi Fatah.

Prima di giudicare ricordate che se ci saranno, queste elezioni si faranno in uno stato di guerra civile fra Hamas e Autorità palestinese, in corso da 16 anni; e sotto l'occupazione militare israeliana da 54 anni. Gaza non è più occupata ma è una gabbia israeliana all'interno della quale un milione e mezzo di palestinesi sono vessati dalla dittatura di Hamas.

Se potranno, gli elettori voteranno per le stesse ragioni che hanno impedito ai giovani di fare una primavera palestinese contro i loro dirigenti corrotti e sempre più intolleranti: l'indipendenza nazionale che viene prima di ogni altra aspirazione. Anche a dispetto di tanti giovani disillusi che ormai cercano un futuro, emigrando.


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