Simone Fontana La grande diaspora: dove stanno andando i fan di Trump in rotta coi social mainstream
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La grande diaspora: dove stanno andando i fan di Trump in rotta coi social mainstream
Dopo la sospensione del presidente uscente da Facebook, Twitter e Instagram, è partito il boicottaggio delle piattaforme dei suoi sostenitori: ma dove stanno andando i trumpiani del web?
I recenti provvedimenti emanati dalle principali piattaforme di social network nei confronti di Donald Trump hanno contribuito a generare un ampio dibattito nell’opinione pubblica su quali dovrebbero essere i limiti della libera espressione – ammesso che debbano essercene, dice qualcuno – e quali contromisure sia lecito attuare quando invece quella libertà finisce per mettere in pericolo il concetto stesso di democrazia. Si tratta di un argomento spinoso e delicato, che non abbiamo mai davvero affrontato in tutta la sua complessità, e che pone domande alle quali è difficile dare una risposta definitiva.
Dall’altra parte però ci sono i fatti e con quelli è necessario fare i conti: Facebook, Instagram e Twitter hanno sospeso il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump dalle rispettive piattaforme, una presa di posizione che lo stesso fondatore di Twitter Jack Dorsey ha definito “giusta ma pericolosa” e che apre ora la strada a una serie di eventi concatenati che potrebbero cambiare per sempre il volto di internet come lo conosciamo. A partire dalla decisione dei sostenitori di Trump di boicottare i social network mainstream e di rifugiarsi in una galassia di siti che offrono più privacy e meno moderazione, una piccola diaspora che sta già modificando la geografia di internet.
Dove stanno andando i trumpiani del web
Come abbiamo più volte raccontato, alcuni tra i fan più accaniti di Donald Trump hanno dato vita a una complessa narrazione complottista, che descrive Trump come una sorta di eroe “sotto copertura”, infiltratosi negli ingranaggi del potere per portare a termine l’arresto di alcuni esponenti democratici dediti alla pedofilia e al satanismo. È la teoria del complotto nota come QAnon, nata in ambienti periferici del web come 4chan ed 8chan – delle imageboard e del loro ruolo nell’elezione di Trump avevamo parlato qui – ma trasformatasi ben presto in una vera e propria setta che per esistere ha bisogno di un luogo d’incontro virtuale.
L’astensione dai social network non è dunque una strada percorribile e così i sostenitori di Trump hanno studiato una serie di alternative per comunicare. Innanzitutto, niente più WhatsApp, in particolare dopo i nuovi termini della privacy che costringeranno gli utenti ad accettare un più intenso scambio di dati tra la app di messaggistica istantanea e Facebook (modifica che sul territorio europeo non sortirà comunque alcun effetto, grazie al regolamento sul Gdpr). Per le conversazioni personali via libera invece a Signal, la app di messaggistica open source che proprio nei giorni scorsi ha fatto registrare un boom di download, grazie a un sistema di crittografia molto sicuro e ai pochi metadati conservati dalla piattaforma.
Proprio per la sua sicurezza, la scorsa estate Signal era diventato lo strumento di comunicazione più utilizzato dai manifestanti di Black Lives Matter e la stessa cosa era accaduta durante le proteste di Hong Kong. Il trampolino di lancio definitivo per questo software libero è però arrivato il 7 gennaio 2021, quando l’imprenditore Elon Musk ha chiesto ai suoi follower su Twitter di “usare Signal” (app tra l’altro finanziata anche dallo stesso Musk).
L’alternativa è ancora una volta Telegram, app di messaggistica considerata complessivamente meno sicura di Signal, ma preferita dai seguaci di QAnon per la sua capacità di aggregare grandi comunità. È su Telegram che vengono ricondivisi i crumb, le cosiddette “briciole” seminate sotto forma di indizi dalla misteriosa personalità nota come Q, e sempre su Telegram i suprematisti bianchi hanno provato a radicalizzare i sostenitori di Trump più moderati, come ha raccontato Mother Jones. Nelle ultime settimane le comunità di estrema destra su Telegram sono cresciute al punto tale da costringere la piattaforma a procedere con la rimozione di numerosi canali che “incitano alla violenza”.
I social network alternativi
Il cuore della propaganda pro-Trump si trova comunque sui social network, uno strumento insostituibile tanto per il presidente uscente che per i suoi sostenitori. In questo senso la sospensione degli account di Donald Trump è stato solo l’ultimo episodio in ordine di tempo di un’escalation iniziata negli ultimi giorni di maggio 2020, quando Twitter ha introdotto un sistema di etichette, studiato per “fornire contesto e informazioni aggiuntive” riguardo messaggi falsi, fuorvianti o non verificati.
Il primo a farne le spese fu proprio Trump, che il 27 maggio si vide limitare un tweet che diffondeva disinformazione sui voti per posta, ma di lì a breve la stessa sorte toccò anche a molti esponenti di QAnon, i cui profili sono stati rimossi a partire da ottobre, prima da Facebook e poi da Twitter. La tensione tra le piattaforme e i sostenitori di Trump appartiene dunque a una dinamica in corso da tempo e proprio per questo la transizione verso nuovi lidi era già stata avviata.
Il primo social network a strizzare l’occhio alla destra (e soprattutto all’estrema destra) americana è stato Gab, una sorta di Twitter senza moderazione nato nel 2016, all’apice della campagna elettorale di Trump, che promette di salvaguardare “la libertà d’espressione, la libertà individuale e la libera circolazione dell’informazione online”. Il suo simbolo è una rana – che rimanda a Pepe the Frog, diventata nel tempo il simbolo dell’alt-right – e ha attirato l’attenzione su di sé dopo il massacro avvenuto nella sinagoga di Pittsburgh, che era stato annunciato dal suo autore proprio su Gab.
I fondatori della piattaforma hanno invitato più volte Trump a iscriversi (creando anche un profilo verificato a suo nome), ma per il momento senza successo. Dopo la guerra dichiarata da Twitter a Trump, tuttavia, Gab sembra aver avuto la sua rivincita e oggi conta oltre 20 milioni di accessi al giorno.
Un altro social network “alternativo” sulla cresta dell’onda è Parler, il rifugio dal “politicamente corretto” scelto dall’ultima ondata di transfughi dai social mainstream. La piattaforma ha ricevuto numerose adesioni di spicco – tra le quali quella del leader della Lega Matteo Salvini – prima di subire due duri colpi: il primo è arrivato da Amazon, che ha deciso di sospendere il servizio di hosting sul suo cloud mandando di fatto offline il sito; il secondo da Google e Apple, che hanno rimosso l’applicazione dai rispettivi store dopo aver constatato l’assenza di moderazione. Oggi uno smartphone con l’app di Parler installata vale su eBay fino a 10mila dollari.
Sulla falsariga di Gab e Parler troviamo anche MeWe (più simile a Facebook) e Wimkin (una sorta di via di mezzo tra il primo social di casa Zuckerberg e Twitter). Ad oggi MeWe stenta a decollare, mentre Wimkin è appena stato rimosso dall’Apple e dal Google store a causa dei molteplici richiami alla violenza riscontrati. Per i nostalgici dei primi boicottaggi social c’è poi sempre VKontankte, il social network russo noto per la sue regole di moderazione molto blande, che da anni accoglie l’estrema destra di tutto il mondo.
Le altre piattaforme
Ma non si vive di soli social network, naturalmente. Il boicottaggio attuato dai supporter di Trump si estende a ogni parte di internet e così nei gruppi dedicati a QAnon sono iniziate a circolare direttive ben precise.
Innanzitutto, stop a YouTube, che al momento non consente a Donald Trump di caricare nuovi video. Le piattaforme di video-streaming approvate dall’estrema complottista sono Rumble – che promette “non verranno mai censurati per contenuti politici o scientifici” e che ha recentemente intentato una causa antitrust contro Google, accusandola di manipolare gli algoritmi per favorire YouTube – e Gab Tv, collegata a Gab. Discreto è anche il successo raccolto da Odysee, famoso per aver pubblicato il documentario francese Hold-Up (che teorizza un piano oscuro del Forum Economico Mondiale dietro alla creazione del virus Sars-Cov-2) e che ha una sezione tutta dedicata al complottismo.
Potete dire addio anche Gmail e Chrome, prodotti di casa Google, sostituiti con Protonmail e Firefox (senza che questi abbiano fatto niente per attrarre un certo tipo di audience). Naturalmente QAnon ha messo al bando anche il motore di ricerca più popolare al mondo, soppiantato da DuckDuckGo, che permette “ricerche private, blocco dei tracker e navigazione privata”. Non è riuscito a farla franca nemmeno Google Maps, infine, che da oggi dovrà guardarsi le spalle da Waze: poco importa che questa sia stata acquistata nel 2013 proprio da Google.
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