Ran Greenstein L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo
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antisemitismo-sionismo-antisionismo
1948:brutti ricordi
Ran Greenstein
23 dicembre 2019 – +972
Il
dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un
test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere
costruita.
Il
decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o
antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso
dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto
tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta
svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini
e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi
problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.
Il
sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di
insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo
– nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che
necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui
essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il
loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele,
che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.
Comprendere
il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi
confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con
tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere
dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui
all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo,
austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza
dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio
dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di
Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa
cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in
seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il
sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla
Guerra Fredda e alle sue conseguenze.
Nei
suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione
della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite
posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione
territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano
variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e
liberali.
La
maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma
non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece
altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di
residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle
culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli
ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di
loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.
In
contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei
di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante
le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un
impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si
insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori –
in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli
anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi
restrittive.
Comunque
centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina,
incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della
Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda
Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che
importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie
sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono
decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste
infrastrutture economiche ed istituzionali.
Naturalmente
gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di
terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla
nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse
nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e
dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre
concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su
come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in
particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo
stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero
essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi
furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto
politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.
Negli
anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il
principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di
uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio
internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche
allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele
continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a
causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili
nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di
insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa.
L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo.
La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli
ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile
per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti
degli stessi ebrei e nel resto del mondo.
Tuttavia
questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole.
Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e
la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la
frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele
divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa
opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni
antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per
l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura
ancora ai giorni nostri.
Globalmente
il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di
autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista
sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo
significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte
degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le
precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione
con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini
ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi
in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su
questi argomenti, e non c’è mai stata.
Di
fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della
solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di
Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono
sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi.
In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia
e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di
seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò
significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in
Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza
particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione
rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio
di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.
Le
principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo
nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli
accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a
causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche
israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono
una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno
di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una
caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?
In
questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive
liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che
tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe
essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche
condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di
colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di
seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su
quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo
separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione
del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di
purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.
Un
modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico
semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il
popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il
confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi
sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e
civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non
ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana,
ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per
non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti,
ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in
vario modo all’apparato statale israeliano.
Più
prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed
evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare
gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia
accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per
porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza
per tutti.
Ran
Greenstein è professore associato di sociologia all’università del
Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono
“Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in
Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)
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