Menachem Klein Qualsiasi soluzione del conflitto israelo-palestinese porterà alla guerra civile
15 giugno 2019 Haaretz
Il dibattito in corso tra i sostenitori di una soluzione a due Stati e coloro che propugnano lo stato singolo è una discussione sul fine: è una di queste la soluzione ideale o solo pragmatica, e come risulterebbe la soluzione?
Negli anni '80 e '90, la risposta a queste domande era chiara. La soluzione dei due Stati aveva il supporto internazionale, e il sostegno tra la maggioranza di israeliani e palestinesi cresceva. La strada per attuarla erano i negoziati diretti, a partire dalle linee del 4 giugno 1967, con aggiustamenti reciproci delle frontiere. Oggi, l’ “accordo del secolo" del presidente americano Donald Trump, trascurando il consenso internazionale, ha lo scopo di imporre ai palestinesi termini diversi, fatti su misura per la destra israeliana.
Il fallimento dei negoziati basati sugli accordi di Oslo e l'espansione degli insediamenti – continuata durante i colloqui e tutt’oggi incessante – hanno incrementato sia tra gli israeliani che i palestinesi il sostegno della soluzione a uno Stato. Nel frattempo, il governo israeliano sembra aver abbandonato la ricerca di una soluzione, dedicandosi invece alla gestione del conflitto.
La discussione sul fine è importante, ma ignora la domanda su come ottenerlo. Non mi riferisco al fatto che l'unico mezzo sia un "processo diplomatico" o l'imposizione di una soluzione da parte della comunità internazionale. Né mi riferisco alla questione se il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni sia un mezzo efficace per avvicinarsi ad una soluzione. La discussione su tali questioni presuppone che se le parti non saranno in grado di colmare il divario tra le loro posizioni negoziali, la comunità internazionale le obbligherà a farlo.
Tuttavia, dobbiamo ancora chiederci se le due comunità accetteranno qualunque soluzione raggiungano i loro leader, da soli o in seguito a forti pressioni internazionali. Anche se un accordo grazie alle pressioni internazionali non sembra essere all'orizzonte, vale la pena dedicarvi qualche riflessione. Un giorno si rivelerà opportuno.
Vorrei esporre la seguente tesi: qualsiasi soluzione al conflitto israelo-palestinese facilmente condurrà a una rivolta armata contro il governo legittimo, o addirittura ad una qualche forma di guerra civile. Non credo nel determinismo storico. È possibile che non si scateni una seria ribellione perché entrambe le parti troveranno il modo di contenere i propri estremisti reprimendo la rivolta prima che si trasformi in guerra civile. Ma perché questo accada, è necessario porsi la domanda e affrontarla, per ridurre il potenziale danno nel caso che una di queste eventualità si realizzi.
Mi concentrerò su Israele, perché le circostanze che potrebbero portare a una rivolta o alla guerra civile in Israele sono diverse da quelle che potrebbero scatenarsi nel lato palestinese. L'opposizione palestinese ad un accordo permanente in base all'Iniziativa Araba di Pace si baserebbe su argomenti religiosi e sul simbolismo nazionale: la rinuncia al ritorno in Israele di tutti i profughi del 1948; l’accordare legittimazione al sionismo e ad Israele, e il totale abbandono dei territori della Palestina su cui esiste Israele.
Ma l'opposizione in Israele non avrebbe solo motivi simbolici, difenderebbe anche interessi materiali. Mentre la fine dell'occupazione israeliana e il raggiungimento della piena indipendenza costituirebbero per i palestinesi un risultato storico che attenuerebbe il dolore delle concessioni fatte, da parte israeliana, invece, rappresenterebbe un colossale fallimento.
L’irrigidimento delle posizioni
La possibilità che scoppi una rivolta o una guerra civile non è ipotetica: è nell'aria ed è presente nella coscienza di chi decide. Questo elefante nella stanza porta ad un irrigidimento delle posizioni. Per varie ragioni, tra cui il desiderio di evitare uno scontro interno, Israele preferisce dichiarare che non c’è un interlocutore, o presentare posizioni negoziali non vincolanti. Nello stesso tempo, in entrambe le società c'è grande pessimismo sulla disponibilità dell'altra ad accettare un accordo. Sempre più voci si stanno schierando per la soluzione a uno Stato, in base al fatto che non è possibile evacuare i coloni.
Perché l'evacuazione dei coloni è un ostacolo così grave? Primo, perché il progetto di espansione territoriale di Israele e controllo sulla popolazione palestinese è il più grande progetto statale / nazionale che il paese abbia mai messo in atto. La sua portata nel tempo e nel territorio e il costo del progetto non hanno precedenti nella storia di Israele. Stimo che l'istituzione dello Stato sia costata meno della sua espansione dopo il 1967.
Praticamente l'intero Stato è investito in questo progetto. Questo non si riferisce solo agli investimenti ideologici e al trasferimento di coloni nei territori palestinesi. Riguarda anche i posti di lavoro di centinaia di migliaia o milioni di israeliani, così come i profitti derivanti dall'esportazione del know-how tecnologico e dei prodotti di sicurezza per mantenere il controllo di Israele sulla popolazione e sul territorio palestinese. L'esistenza di uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza richiederebbe molto più di una decisione politica o l'evacuazione di circa 100.000 coloni: richiederebbe un cambio totale di direzione da parte dello Stato di Israele.
Gli investimenti israeliani nel controllo della popolazione palestinese sono aumentati con l'incremento dell'espansione israeliana. Nel 2002, Israele riconquistò la Cisgiordania e convertì l'Autorità Nazionale Palestinese in un proprio subappaltatore tramite la cooperazione per la sicurezza. Da allora, la creazione di un solo regime tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è un dato di fatto. Sotto questo regime, il gruppo etnico ebraico mantiene il controllo sul gruppo palestinese. Nonostante le profonde discriminazioni tra i due gruppi etnici, rivali negli equilibri di potere, nei diritti umani e nell'accesso alle risorse, esiste una parità demografica.
L'equilibrio demografico si va tuttavia indebolendo a scapito degli ebrei e ciò richiede loro di rafforzare il controllo sui palestinesi. Le colonie non solo creano di fatto annessioni di territorio, costituiscono anche uno strumento di controllo sui palestinesi. Man mano che gli investimenti crescono, diventa più difficile per il gruppo ebraico-israeliano liberarsene e rinunciare ai privilegi procurati dall’esercizio del controllo.
La maggioranza ebraica mette in campo una serie di argomenti per giustificare la folle marcia. In cima a questa lista c'è la sicurezza. La parte ebraica ritiene che la sua superiorità e capacità di controllo della situazione siano minacciate. Anche se questa minaccia ha un fondamento nella realtà, molti da parte ebraica la interpretano, erroneamente, come una minaccia esistenziale. Questo non fa che aumentare le difficoltà nel cambiare direzione.
Chi è un colono?
È un errore pensare che il problema che sto sollevando sia dovuto essenzialmente al numero dei coloni. È vero che vi è una crescente popolazione di coloni, più di mezzo milione. E non tutti sono estremisti come gli assassini della famiglia Dawabsheh, uccisa nel villaggio di Duma in Cisgiordania nel 2015. Alcuni di loro credono veramente nella coesistenza con i loro vicini palestinesi o nella necessità di accettare la decisione della maggioranza democratica.
Ma occorre ricordare che i coloni, come gruppo politico-religioso-sociale, non sono circoscritti all’area della Cisgiordania. In altri termini, non è il luogo in cui risiedono a determinare chi è un “colono”. Sotto questo aspetto, ci sono “coloni” anche all’interno dello Stato di Israele, intendendo coloro la cui visione del mondo in termini di sicurezza politico-religiosa e nazionale è la stessa di quella dei coloni radicali. Alcuni di loro potrebbero imbracciare le armi per cercare di rovesciare la decisione democratica che consenta la piena sovranità palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, compresa Gerusalemme est e il Monte del Tempio, ed il ritorno in Israele di un numero concordato di rifugiati in cambio della “illusione della pace”. La democrazia israeliana dovrebbe allora affrontare un conflitto in merito alla sua stessa legittimità.
Si tratterebbe di affrontare non un nemico esterno, ma alcuni fra gli stessi cittadini e soldati di Israele. In nome della sacralità della ‘Terra di Israele’ e di una radicata sfiducia negli intenti dei palestinesi, questo gruppo potrebbe rivolgere le armi di cui dispone e le proprie capacità militari contro l’esercito e i servizi di sicurezza, che starebbero applicando la decisione della maggioranza dei cittadini del Paese. Questo farebbe seguito ad un aspro dibattito interno e ad una legittima competizione democratica da parte degli oppositori all’accordo.
A metà degli anni ’60 la Francia ha dovuto far fronte alla rivolta dei coloni e dei reparti militari quando ha deciso, con un referendum, di lasciare l’Algeria. L’Algeria era stata annessa alla Francia e aveva un milione di coloni e mezzo milione di soldati francesi. Vale la pena ricordare che la Francia ha deciso l’evacuazione dell’Algeria nel contesto di una decolonizzazione mondiale – contesto che oggi non esiste. Questo non fa che accrescere le difficoltà nell’eseguire un’evacuazione israeliana.
La stretta simbiosi tra i coloni e l’apparato militare e di sicurezza che li protegge in Cisgiordania potrebbe creare in Israele una situazione simile a quella della Francia. Coloni del tipo che ho qui descritto si possono trovare non solo nelle colonie, ma anche in unità di combattimento israeliane (alcune di esse sono assimilate), nell’Amministrazione Civile e nei servizi di sicurezza. Immagino che molti troverebbero difficile entrare in azione contro l’esercito e gli apparati dello Stato, ma non è inverosimile pensare che alcuni aiuterebbero i rivoltosi dietro le quinte sia con azioni che con omissioni, e che un più esiguo numero prenderebbe parte alla rivolta.
Negli anni ’80 l’organizzazione clandestina ebraica comprendeva circa 20 membri. Tuttavia ha dimostrato che un gruppo di attivisti con esperienza militare e capacità di organizzare una resistenza poteva agire con l’appoggio di autorità ideologiche per provocare un cambiamento strategico. Da allora la possibilità che una situazione simile si ripetesse è sempre aumentata. Dall’evacuazione delle colonie nella Striscia di Gaza nel 2005, il gruppo che sostiene i coloni violenti non è diminuito, bensì si è ampliato. Contrariamente all’impressione creata dalle informazioni sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, la principale minaccia ad un accordo su uno status permanente non viene da un’esigua e violenta banda di adolescenti fuorilegge, ma piuttosto da una resistenza organizzata che gode di ampio supporto nell’establishment sociale e politico.
Per fare in modo che il gruppo di ebrei così profondamente dedito al progetto di espansione e controllo abbandoni i suoi privilegi, occorre che vi sia una grave crisi o una pesante pressione esterna. Nessun potere coloniale ha mai ceduto una colonia per motivi morali e rispetto dei diritti umani. Se la crisi e la pressione peggiorassero, sia da parte palestinese che della comunità internazionale, o di entrambe – diventerà comunque molto difficile per Israele cedere. Coloro che appartengono all’area pacifista israeliana sarebbero catalogati come traditori e collaboratori e sarebbero simbolicamente esclusi dalla collettività. Come si è dimostrato durante gli eventi che hanno preceduto l’assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin, potrebbe essere il prologo ad una vera esclusione dalla collettività. Nel 1994-95 l’attacco era diretto ad una singola persona. In futuro le armi potrebbero essere rivolte contro un intero settore della popolazione.
Discussione tabù
La soluzione di uno Stato unico non esclude la possibilità dello scoppio di una guerra civile. Invece di una lotta tra lo Stato di Israele ed un gruppo ribelle di ebrei, in un unico stato la lotta sarebbe tra due comunità etnico-religiose-linguistiche. Per tutti i motivi che ho elencato, il gruppo etnico ebraico non accetterebbe di rinunciare ai suoi privilegi in nome della creazione di un regime egualitario tra ebrei e arabi palestinesi. Nel 2017 il Pil pro capite in Israele era di 36.250 dollari, contro i 3.000 nei territori palestinesi. Anche se questo enorme divario si riducesse, il suo ammontare dividerà i ricchi e potenti ebrei dagli arabi palestinesi, non perché questi ultimi siano meno qualificati, ma a causa dell’interesse degli ebrei di mantenere la superiorità.
Data la superiorità degli ebrei in ogni campo tranne che in quello demografico, non c’è possibilità che essi non acquisiscano posizioni privilegiate in una situazione di Stato unico e che non sfruttino le loro maggiori risorse per mantenere il proprio status. In una situazione di quasi parità demografica tra i due gruppi etnici, non c’è possibilità che i palestinesi accettino di essere in posizione inferiore. In breve, uno Stato unico è una ricetta sicura per una perdurante guerra civile, simile a ciò che accadde nei Balcani con la disgregazione della Yugoslavia, o in Libano.
La discussione su una guerra civile è un tabù nella società israeliana. Lo slogan prevalente è “un ebreo non caccia via un ebreo”. Non c’è dubbio che gli eventi che accompagnerebbero la liberazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e la conquista di una piena sovranità palestinese su di esse e su Gerusalemme est, insieme al ritorno dei rifugiati, sarebbero traumatici per la società israeliana. Per fare un paragone, quando nel 1948 fu affondata l’ ‘Altalena’ (nave carica di armi destinate all’Irgun, gruppo paramilitare ebraico, ndtr.) , 16 membri dell’Irgun e tre soldati israeliani furono uccisi e l’avvenimento costituisce ancora un ricordo doloroso che crea una profonda divisione nella società israeliana.
La storia di altre nazioni e gli eventi che hanno accompagnato la fine di un regime discriminatorio e repressivo ci insegna che quando queste nazioni hanno subito una fondamentale trasformazione hanno dovuto affrontare una rivolta o una guerra civile. C’è motivo di preoccuparsi che il destino della società israeliana non sarà diverso.
Il professor Menachem Klein insegna scienze politiche all’università di Bar-Ilan ed è autore di Vite in comune – arabi ed ebrei a Gerusalemme, Jaffa e Hebron (2014). Il suo ultimo libro, Arafat e Abbas, ritratti di leadership in uno Stato rinviato, uscirà in ottobre.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata originariamente su Palestine-Israel Journal.
(Traduzione di Luciana Galliano e Cristiana Cavagna)
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