Umberto De Giovannangeli L'America First di Donald Trump trasforma il Medio Oriente in un suq

Umberto De Giovannangeli   L'America First di Donald Trump trasforma il Medio Oriente in un suq


All'amico "Bibi" Donald Trump ha ricordato che gli Stati Uniti pagano ogni anno per la sicurezza d'Israele 4,5 miliardi di dollari. Alle petromonarchie del Golfo, Arabia Saudita in primis, ha chiesto di aprire ancora di più i cordoni della borsa perché la sicurezza costa e l'America "non intende essere più il Poliziotto del mondo". È la quintessenza dell' "America first" proiettata sul perturbato, esplosivo scenario mediorientale. Ma la visita a sorpresa di Donald Trump, e della First Lady Melania, alle truppe statunitensi in Iraq ha anche una valenza interna: dopo le polemiche dimissioni di Jim Mattis, il generale pluridecorato, da capo del Pentagono, l'inquilino della Casa Bianca aveva bisogno di dimostrare, fisicamente, visitando truppe impegnate in zone di combattimenti, di essere il "commander in chief" a tutti gli effetti, e da comandante in capo assicura che il ritiro dei 2000 soldati dalla Siria, non significa che gli States smobilitano, lasciando il Grande Medio Oriente, non solo la Siria, in mano di competitori globali (la Russia, in particolare) e regionali.
Trump sa bene che le preoccupazioni di Mattis sono condivise dai vertici militari Usa, ed è anche per questo che in Iraq, The Donald si è fatto accompagnare dal super falco della sua amministrazione, il Consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton, grande amico d'Israele, deciso sostenitore della linea durissima contro l'Iran.
Prova a rassicurare alleati e generali, il tycoon, ma al tempo stesso non può fare dietrofront sulla scelta siriana. Del ritiro delle forze americane dall'estero, Trump ha fatto un punto cardine della sua presidenza e anche a Baghdad ha difeso la sua scelta. "Avevo detto chiaramente - ha spiegato - che la nostra missione in Siria era quella di togliere all'Isis i suoi avamposti militari". Missione considerata conclusa con la caduta delle principali città in mano allo Stato islamico. Un obiettivo centrato, secondo Trump che affida alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan il compito di occuparsi di quello che resta dello Stato islamico in Siria.
Da questo punto di vista, quello di Donald & Melania in Iraq non è stato un colpo di teatro, se per tale si intendesse un ripensamento strategico sul ruolo che, nella visione trumpiana, l'America deve avere nel mondo. Davanti alle truppe schierate nella base di al-Asad, Trump ha rimodulato, ma non smentito, quanto aveva twittato il 20 dicembre. Gli Stati Uniti non vogliono più essere il poliziotto del Medio Oriente senza ricavarne niente, aveva "cinguettato" l'inquilino della Casa Bianca, spiegando che l'America finora ha speso "vite preziose e miliardi di dollari per proteggere altri che, nella maggioranza dei casi, non apprezzano quello che facciamo". E, riferendosi al ritiro delle truppe dalla Siria, aveva spiegato: "E' il momento per gli altri di combattere".
"Gli Stati Uniti - ha sostenuto dall'Iraq Trump - non hanno mai avuto un ruolo nella ricostruzione del Paese (la Siria, ndr): questo tipo di ruolo dovrebbe essere svolto da altri Paesi ricchi". Come l'Arabia Saudita. Ed ancora: Russia, Iran, Siria e molti altri non sono contenti del fatto che gli Stati Uniti lascino", ha aggiunto Trump spiegando che sta "costruendo le forze armate più potenti del mondo". "Uscire dalla Siria non è una sorpresa. Sei mesi fa ho dato il via libera a restare di più. Russia, Iran, Siria e altri sono i nemici locali dell'Isis. E' il momento di tornare a casa", aveva concluso il presidente Usa.
Trump chiama in causa le petromonarchie del Golfo. E una prima risposta arriva neanche ventiquattr'ore dopo. La Siria ha annunciato che gli Emirati Arabi Uniti riapriranno la loro ambasciata a Damasco dopo sette anni. Il Ministero dell'Informazione siriano ha invitato i giornalisti a seguire l'evento oggi nel centro di Damasco, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli. Con l'ambasciata emiratina funzionante, nota il Guardian, sarebbe operativo un fondamentale canale di comunicazione indiretto tra il governo siriano e quello saudita, acerrimi nemici durante la guerra civile, che ora sembrano disposti ad archiviare la rivalità in nome della cooperazione regionale. Gli Emirati richiamarono il loro ambasciatore dalla Siria nel 2011 dopo l'inizio delle rivolte contro il presidente Bashar al-Assad. Nello stesso anno, la Lega araba espulse la Siria e i Paesi arabi condannarono di Damasco per l'uso della forza militare contro l'opposizione. Proprio ieri fonti diplomatiche hanno preannunciato l'intenzione della Lega Araba di riammettere la Siria. La notizia è stata diffusa dal ministero dell'Informazione siriano, il quale ha invitato tutti i giornalisti a presenziare alla cerimonia che si terrà nel centro della capitale; il governo ha infatti utilizzato tutti i canali a sua disposizione per dare il maggior risalto possibile ad una notizia che rappresenta un punto a suo favore sul piano dei rapporti diplomatici internazionali.
Ciò che avviene in Siria è attenzionato h24 da Israele. Parlando ai giornalisti sulla via del ritorno da viaggio in Iraq, Trump ha rivelato: "Ho parlato con Bibi", ha detto, riferendosi al primo ministro Benjamin Netanyahu. "Ho detto a Bibi, sai che diamo a Israele 4,5 miliardi l'anno". Per poi aggiungere: "Sono io quello che ha trasferito l'ambasciata a Gerusalemme". L'amico Bibi, parlando del ritiro americano dalla Siria, ha affermato che "non cambierà la nostra politica. Siamo fermamente saldi sulle nostre linee rosse in Siria e ovunque". Resta il fatto che Israele ha sempre considerato la presenza americana in Siria come un fattore chiave per contrastare la presenza delle milizie dell'Iran e dei loro alleati sciiti libanesi, gli Hezbollah. "Per quanto riguarda Israele – rimarca Amos Harel, analista di punta di Haaretz - questa storia (il ritiro Usa dalla Siria, ndr) ha una conclusione immediata e una lezione a lungo termine. La conclusione immediata è che il desiderio di distanziare le forze iraniane e le milizie sciite dalla Siria non è affatto vicino alla realizzazione. La Russia ha venduto le sterili promesse di Israele, che si sono sgretolate dopo circa sei mesi - e gli Stati Uniti non sono entusiasti di dare una mano. E anche se le Forze di Difesa israeliane hanno conquistato uno straordinario risultato nella serie di scontri con le Guardie rivoluzionarie iraniane in Siria la scorsa primavera, ciò non significa che Teheran abbia rinunciato ai suoi piani. La lezione a lungo termine - aggiunge Harel - è che Trump, nella sua situazione, è diventato qualcuno su cui non si può fare affidamento. Anche se è fondamentalmente solidale con Israele, e anche se è circondato da familiari, consiglieri e persone inermi che sono ebrei, Trump è in guai così grossi e agisce in modo così irregolare che il governo israeliano non può essere certo del suo sostegno a lungo termine".
"Non sembra esserci alcun fondamento logico per la decisione (il ritiro dalla Siria, ndr) e se non c'è una giustificazione logica per la decisione, allora devi chiedere, perché è stata presa?", rincara la dose l'ex comandante della Nato, e generale Usa in pensione Wesley Clark nel "New Day" della Cnn. "La gente di tutto il mondo si sta chiedendo questo e alcuni dei nostri amici e dei nostri alleati in Medio Oriente si stanno domandando... Erdoğan ha ricattato il presidente? C'è stata una ricompensa o qualcosa del genere? Perché dovrebbe prendere una decisione come questa, visto che tutte le raccomandazioni erano contrarie", ha aggiunto il generale Clark.
Chi non si fa domande ma incassa il via libera al protettorato turco nei territori siriani confinanti, è Ankara. Il nuovo asse Trump-Erdoğan porta il ministro degli Esteri turco Mevlüt Cavusoglu ad accusare il primo ministro israeliano di voler smembrare la Siria facendo leva sui curdi. Di certo c'è che quello che Washington aveva promesso ai curdi del Rojava, in cambio della guerra contro il Daesh che ha portato i miliziani delle Fds (Forze democratiche siriane) a conquistare Raqqa e Deir ez-Zor è carta straccia: completa eradicazione dello Stato islamico dall'area dell'Eufrate; protezione da possibili operazioni militari della Turchia e dell'esercito siriano; riconoscimento politico".
In un'intervista all'agenzia curda Anf, il portavoce per gli esteri del Partiya Yekîtiya Demokrat (Pyd, la forza egemone del Rojava), analizza la decisione sul ritiro degli Usa nel contesto delle minacce della Turchia e ricorda le condizioni poste dagli Usa stessi per un ritiro: "Hanno costantemente ripetuto questi punti: l'annientamento dello Stato Islamico, il ritiro dell'Iran dalla Siria e la stabilizzazione della Siria. Per questa ragione consideriamo questa decisione sul ritiro una decisione spontanea prematura". E poi ricorda ai turchi: "Facciamo affidamento sulla nostra forza e sulla nostra autodifesa. Ci troviamo in una condizione di legittima autodifesa e non l'abbiamo mai allentata. Se (gli Usa) restano o se ne vanno riguarda loro. I nostri interessi hanno coinciso e abbiamo agito insieme, ma non ci siamo mai legati a loro". Secondo l'esponente curdo "esiste un collegamento tra il momento del ritiro e le minacce dello Stato turco: non è chiaro come si sono messi d'accordo dietro le quinte, a quali condizioni hanno trovato un accordo. Il momento tuttavia suscita l'impressione che le dichiarazioni non siano avvenute in modo indipendente. Per dirlo in modo preciso, significa che le minacce di Erdoğan, 'Lo farò comunque" non sono vuote. Questo significa che hanno condiviso questo tema con gli Usa. Noi non abbiamo in mano niente di concreto, ma quello che è successo lo interpretiamo e lo analizziamo di conseguenza".
E di conseguenza, i curdi-siriani si preparano ad affrontare il "Sultano di Ankara", sperando, magari, in un sostegno inaspettato: quello d'Israele. Il "suq-America first" può portare anche a questo.

Commenti

Post popolari in questo blog

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

giorno 79: Betlemme cancella le celebrazioni del Natale mentre Israele continua a bombardare Gaza

Né Ashkenaziti né Sefarditi: gli Ebrei italiani sono un mistero - JoiMag

I 'cimiteri dei numeri': dove finisono i "nemici" di Israele