Robert Fisk Trump contro Mattis

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  • I movimenti del futuro – Prima parte
  • (senza titolo)
  • Il linguaggio della pedagogia neoliberista  di Henry A. Giroux  – 26 dicembre 2018
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  • “Forte Trump”




  • Quando un generale popolarmente noto come “cane rabbioso” [letteralmente ‘cane pazzo’ – n.d.t.] abbandona un presidente statunitense pazzo davvero, si capisce che qualcosa ha superato i limiti a Washington. Sin dall’Impero Romano capi militari già leali sono fuggiti da capi squinternati e la ritirata di Mattis dalla Casa Bianca potrebbe avere il sapore di de Gaulle e Petain.
    De Gaulle affrontava un eroe del popolo immensamente potente – il Leone di Verdun – che, nel sua senilità, stava per ignorare la sacra alleanza con la Gran Bretagna a favore della collaborazione con i nazisti (per i quali, suppongo, si possa oggi leggere la Russia di Putin). Fu presa la decisione di non aver nulla a che fare con Petain o con quelli che oggi Mattis chiama gli “attori maligni”. De Gaulle avrebbe invece guidato la Francia Libera.
    Mattis non ha ambizioni simili – almeno non ancora – anche se c’è una quantità di Laval e Weygand in attesa di vedere se Trump sceglierà uno di loro come proprio segretario della difesa. Inoltre la storia non autorizzerebbe un tale panorama epico a Trump e Mattis.
    Dopotutto nessun tweet di Trump potrebbe essere paragonato allo slogan del 1916 di Petain “Li prenderemo!” (“on les aura!”) e il dignitoso, freddo e noioso de Gaull non si sarebbe mai prestato alla filippica in cui Mattis si è imbarcato a San Diego nel 2005: “Andate in Afghanistan e trovate tizi che schiaffeggiano le donne per cinque anni perché non hanno indossato un velo. Sapete, a tizi del genere non sono comunque rimasti i coglioni. Dunque è un fottio divertente sparargli addosso. In realtà è un fottio divertente battersi. Sapete, è un maledetto spasso. E’ divertente sparare a un po’ di gente. Io sarò giusto in testa a voi, mi piace scazzottare”.
    E Mattis è stato felice di “scazzottare” politicamente con gli iraniani, anche se ugualmente felice di lasciare che i sauditi combattano per conto suo, in Yemen quanto meno. Nel 2017 ha scelto l’Arabia Saudita per annunciare che: “Dovunque guardiate, se ci sono guai nella regione ci trovate l’Iran”. Pensava persino che “l’Iran non è un nemico dell’Isis”, una dichiarazione che ha dimostrato o ignoranza o falsità. Nessuna meraviglia che si sia in seguito innamorato del principe ereditario Mohamed bin Salman.
    Ma ora è entrato in un nuovo pantheon. Improvvisamente l’uomo di guerra, il generale dei Marine statunitensi che trovava “un fottio divertente” sparare ai misogini afgani e che amava “scazzottare”, è diventato un pacificatore. E’ stato la mano frenante che ha tirato per la camicia il folle Trump, il solo uomo che poteva fermare Nerone dal bruciare Roma. Era “il più sano di mente della squadra della sicurezza nazionale di Trump”, secondo Blair Gild sul Washington Post. Era un’”isola di sicurezza”, ha annunciato Amos Harel sul giornale israeliano Haaretz.
    Tutto questo fa parte della piagnucolosa scuola di giornalismo che riteneva – dopo che la follia di Trump si è resa manifesta – che l’esercito potesse controllare l’uomo nel manicomio. L’idea era che anche se Trump avrebbe potuto dar fuoco al mondo, quegli affidabili generali, veterani delle guerre degli Stati Uniti per la democrazia – Afghanistan e Iraq, certamente – potevano proteggere tutti noi dai deliri di un presidente democraticamente eletto. E’ una storia cupa e pericolosa nella quale siamo stati tutti collusi, specialmente gli arabi. Meglio un generale Neguib o un colonnello Nasser che un corrotto vecchio re Farouk; molto più sicuro un feldmaresciallo Sisi che uno squilibrato uomo della Fratellanza Mussulmana come Mohamed Morsi; più sicuri (come sembrava nel 1969) con un lungimirante colonnello Gheddafi che con un fiacco re Idris.
    Poiché c’è qualcosa di inizialmente attraente e profondamente immorale nell’idea che i signori della guerra possano trasformarsi in salvatori – questo concetto si applica ovviamente anche a Petain – e che quelli che hanno seminato sangue debbano essere unicamente dotati della capacità di realizzare la pace o di produrre una società giusta. Non per nulla solo tre mesi fa Mattis ha pubblicizzato la sua costante lettura delle Meditazioni di Marco Aurelio: “… il motivo per cui tenevo nel mio zaino una copia sbrindellata da tirare fuori a volte”, ha dichiarato ai cadetti militari statunitensi in Virginia, “era che mi consentiva di guardare alle cose con un certo distacco”. Tutti gli statunitensi dovrebbero leggere questo libro, era il suo messaggio, “specialmente a Washington DC, con tutto l’”oh issa!” politico da cui cerco di tener fuori il Dipartimento della Difesa”.
    Ma il messaggio reale era certamente leggermente diverso. L’austero imperatore filosofo della Roma del secondo secolo – che governò quando l’Impero copriva più territorio che mai prima nella sua storia – credeva in un mondo piuttosto tetro di dovere e servizio e di quasi agnosticismo, in realtà distante dall’educazione cattolica di Mattis. Marco Aurelio dedicò gran parte della sua vita a condurre guerre – compreso il conflitto tra Romani e Parti che distrusse Ctesiphon, a sole poche miglia da Baghdad – e suo figlio fu il lordo di sangue Commodo (famosamente ucciso da Russell Crowell in Il gladiatore].
    I generali paiono tenere sempre copie “sbrindellate” dei classici nei loro zaini, piuttosto come soldati della Prima Guerra Mondiale. Harold Macmillan giacque ferito nella buca di una granata nel bosco di Delville, leggendo Eschilo per dodici ore. Ma Mattis?
    La sua carriera, sin qui, pare avere un vago parallelo con Ariel Sharon, il notoriamente feroce e vanesio generale israeliano che, dopo essere stato considerato “personalmente” responsabile di non aver prevenuto il massacro di sino a 1.700 civili palestinesi da parte degli alleati cristiani libanesi nel 1982, è stato onorato come pacificatore quando è morto. Sharon – il “Bulldozer” o il “Macellaio” a seconda che si ascoltino gli israeliani o gli arabi – è stato il più importante promotore del progetto israeliano di colonizzazione della West Bank (che non fece che accelerare dopo il suo ritiro delle colonie ebree da Gaza) e ha finito i suoi giorni dopo che un infarto lo aveva gettato in un coma di otto anni.
    Ma la sua morte è stata salutata come quella di un potenziale salvatore. Egli contribuì a sabotare il “processo di pace” di Oslo e tuttavia alla sua morte David Cameron ha parlato della “coraggiosa” decisione di Sharon di conseguire la pace, mentre Bill e Hillary Clinton hanno detto che era stato “un onore collaborare con lui”. John Kerry ha parlato di come Sharon “cercò di piegare alla pace il corso della storia”. Sharon, per quanto sappiamo, non leggeva Marco Aurelio. Ma, così ci è raccontato, amava ascoltare sonate per violino.
    Yasser Arafat, d’altro canto, esordì in occidente – e nei suoi media – come un leader super-terrorista palestinese di Beirut che, una volta aderito alla condannata farsa di Oslo, divenne un pacificatore. Colui che aveva sguainato la spada, offrì al mondo il fucile o il ramo d’ulivo e avrebbe fatto giacere il leone accanto all’agnello, eccetera. Ma una volta che gli statunitensi, specialmente Bill Clinton, ebbero persuaso che Arafat aveva respinto l’”offerta di pace” finale di Camp David, Arafat divenne, ancora una volta, un super-terrorista, o il “Bin Laden di Israele”, quella la descrizione di Sharon.
    E così il capo dell’OLP, odiato e poi amato e poi del tutto odiato di nuovo, subì mesi di assedio nella sua capitale da burla di Ramallah, morì a Parigi e gli fu rifiutata la sepoltura a Gerusalemme. Ecco un uomo, sicuramente, il cui corpo deve essersi rivoltato ancor prima di giacere nella tomba. Gheddafi ebbe una storia simile. Terrorista quando inviava armi all’IRA, fu baciato da Tony Blair e divenne un pacificatore, poi regredì a tiranno sanguinario, dopo di che David Cameron e i suoi compari decisero di bombardarlo. Scrisse persino uno strampalato pseudo-filosofico “Libro Verde”.
    Così con tutti questi militari in altalena tra guerra e pace, elogiati come difensori di Israele o della “Palestina” o degli Stati Uniti o dell’arabismo – dopo aver tenuto in mano armi o foglie d’olivo o copie delle Meditazioni di Marco Aurelio o aver ascoltato sonate per violino o aver letto la loro prosa pomposa – è probabilmente una buona idea astenersi per un po’ dai generali. Ne abbiamo avuti un turbine in corsa a coprirsi da Trump negli ultimi due anni, tutti diligenti nel servizio e nel dovere e, si suppone, a “contenere” lo svitato in capo prima di gettare la spugna. Nel mondo reale si presume siano i politici a contenere i generali. Non il contrario.

    Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
    www.znetitaly.org

    Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/trump-vs-mattis/

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