Pesa le parole, Riyad al-Malki, ministro degli Esteri dell'Autorità
nazionale palestinese (Anp). Lo fa da abile diplomatico qual è e perché
sa che in questo momento di tutto hanno bisogno i Palestinesi tranne che
di favorire la politica d'Israele che, rimarca al-Malki parlando con HuffPost,
"punta alla delegittimazione della leadership palestinese e a portare a
compimento il regime di apartheid nei Territori occupati". Pesa le
parole, ma il suo, alla fine, è un possente j'accuse alla Comunità
internazionale che "non si è assunta le responsabilità proprie ed ha
voltato le spalle alla questione palestinese". Un concetto che al-Malki
ha sostenuto nel suo intervento al Med Forum 2018 in corso a Roma. "La
questione palestinese è ancora in attesa di essere risolta e aspetta che
la comunità internazionale si assuma le proprie responsabilità – ha
rimarcato nel suo intervento il capo della diplomazia palestinese,
perché la questione è stata creata dalle decisioni internazionali di
dividere la Palestina storica in due Stati. Siamo delusi da quanto ha
fatto la Comunità internazionale che non si è assunta le proprie
responsabilità in questi 75 anni. La Comunità internazionale ha voltato
le spalle alla nostra questione".
Partiamo da questa
amara, dura considerazione, signor ministro. Nel suo intervento al Forum
di Roma, Lei ha sostenuto che la Comunità internazionale ha voltato le
spalle alla questione palestinese...
"Sì, ma ho anche
aggiunto che è stata una scelta miope, perché, come ha sostenuto con
forza il ministro degli Esteri russo (Sergey Lavrov, ndr) senza una
soluzione della questione palestinese non vi potrà essere una
stabilizzazione del Medio Oriente...".
Una soluzione: quale?
"Quella
che ripristini la legalità internazionale in Palestina: la soluzione
fondata sul principio 'due popoli, due Stati'. Un principio contemplato
nelle risoluzioni Onu che Israele non ha mai rispettato, un principio
che guida anche la mai realizzata Road Map del Quartetto per il Medio
Oriente (Usa, Russia, Ue, Onu, ndr). Noi non ci siamo mai discostati da
questo tracciato. E' Israele ad aver lavorato sul campo per rendere
impossibile questa soluzione...".
A cosa si riferisce, signor ministro?
"Alla
colonizzazione dei Territori. Una politica unilaterale imposta con la
forza, spacciata come una necessità per la sicurezza d'Israele. Ma con
l'espropriazione delle terre palestinesi in Cisgiordania, con la pulizia
etnica perpetrata a Geusalemme Est, la sicurezza non c'entra niente.
C'entra la determinazione dei governanti israeliani a praticare la
politica dei fatti compiuti. Qui sta la responsabilità della Comunità
internazionale: continuare a parlare di una soluzione a due Stati e poi
non aver fatto nulla per impedire che Israele minasse questa soluzione.
Tuttavia, noi non ci arrendiamo. Sappiamo di essere nel giusto quando
rivendichiamo il nostro diritto all'autodeterminazione; un diritto che
non nega quello d'Israele alla sicurezza o, addirittura, all'esistenza.
Il popolo palestinese non si batte per uno Stato in meno, quello
d'Israele, ma per uno Stato in più, quello di Palestina".
Signor ministro, nella visione della dirigenza palestinese, è ipotizzabile uno Stato senza Gerusalemme Est come capitale?
"No,
mai. Neanche il leader più disposto al dialogo e al compromesso
potrebbe mai accettare una soluzione che tagli fuori Gerusalemme...".
Ma
questa ipotesi è presente nel "piano del secolo" per la pace di cui il
presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha più volte parlato.
"La
scelta compiuta dal presidente Trump di trasferire l'ambasciata Usa da
Tel Aviv a Gerusalemme ha allontanato e non certo favorito la soluzione
del conflitto israelo-palestinese. Una scelta peraltro criticata anche
da importanti organizzazioni ebraiche americane e che ha rafforzato i
falchi del governo israeliani convinti di poter comunque essere
garantiti dalla copertura di Washington. Ma questa forzatura ha un
risvolto che ci dà speranza...".
Qual è questo risvolto?
"I
Paesi che hanno seguito gli Stati Uniti in questa scelta si contano
sulle dita di una mano. Ed è importante che nessun Paese europeo abbia
ceduto al pressing dell'amministrazione Usa e d'Israele. Voglio qui
ribadire ciò che ho affermato nel mio intervento al Forum: abbiamo
bisogno di un'Europa forte e unita per prendere questa responsabilità.
Se gli americani non vorranno fare nulla, dovrebbe farlo l'Europa.
Dobbiamo forzare il cambiamento, e per questo stiamo spingendo per un
ruolo europeo. Sarebbe un fatto politico di grande significato, come lo è
il fatto che è sempre più grande e qualificato il numero dei Paesi al
mondo che hanno riconosciuto unilateralmente lo Stato di Palestina.
Questo ci dice che esiste un consenso internazionale attorno a questa
soluzione e sarà nostro impegno rafforzarlo, sia nelle relazioni
bilaterali che operando nei tanti e importanti organismi internazionali
dei quali siamo stati chiamati a far parte".
Signor
ministro, il governo israeliano è entrato in crisi dopo le dimissioni di
Avigdor Lieberman da ministro della Difesa. Dimissioni motivate
dall'accusa rivolta al primo ministro Benjamin Netanyahu di aver ceduto
ai "terroristi palestinesi" negoziato, attraverso l'Egitto, un
cessate-il-fuoco nella Striscia. Per la gente di Gaza si è aperto uno
spiraglio di speranza?
"La speranza può diventare realtà
solo quando Israele porrà fine ad un assedio che dura ormai da undici
anni. Le condizioni di vita della popolazione della Striscia di Gaza
sono terribili. A documentarlo sono decine di rapporti delle agenzie Onu
e delle ong internazionali che ancora operano, nonostante le
costrizioni subite da parte delle autorità israeliane, a Gaza. C'è un
problema di sicurezza ai confini tra Israele e Gaza? Non è con i
bombardamenti che questo problema può essere risolto. Per quanto ci
riguarda, non siamo contrari al dispiegamento di una forza
internazionale sotto egida Onu, ai confini tra Gaza e Israele. Ma questa
forza d'interposizione deve essere parte di un piano più ampio che
preveda la fine dell'assedio e l'inizio della ricostruzione...".
Di ricostruzione parla anche il presidente Trump nel suo "piano del secolo"...
"La
ricostruzione di Gaza non può essere utilizzata come arma di pressione,
o per meglio dire di ricatto verso l'Autorità nazionale palestinese
affinché ceda su Gerusalemme o accetti di fatto la separazione di Gaza
dalla Cisgiordania. Perché è questo il vero obiettivo di quel piano:
smembrare ulteriormente i Territori palestinesi, trasformandoli in una
sorta di bantustan mediorientali...".
A negoziare la tregua a Gaza è stata Hamas...
"Questa
è una rappresentazione parziale, inesatta. Il presidente Abbas ha
discusso con il presidente al-Sisi della situazione e da parte di
quest'ultimo c'è sempre stato il riconoscimento del ruolo che il
presidente Abbas ricopre. Gaza non è altra cosa dalla Cisgiordania: non
esistono due autorità parallele. Chi opera per questo fa il gioco
d'Israele che ha sempre puntato sulle divisioni all'interno del campo
palestinese".
Signor ministro, nel suo intervento Lei ha
affermato: "Forse pensiamo di non potere avere uno Stato indipendente
palestinese quest'anno o il prossimo anno, ma un giorno succederà se
cambieranno le cose..". Ma il fattore tempo non lavora contro la pace?
"Può
sembrare così, e in parte lo è. Ma c'è un aspetto che troppo spesso
viene dimenticato o sottovalutato e che invece assumerà sempre più una
sua centralità nel conflitto israelo-palestinese: mi riferisco
all'aspetto demografico. Tutti gli studiosi, a cominciare da quelli
israeliani, indicano che nel giro di non molti anni, gli arabi – gli
arabi israeliani e i palestinesi dei Territori – saranno maggioranza.
Israele non potrà chiudere gli occhi di fronte a questa realtà né potrà
risolverla realizzando uno stato nello stato: lo stato dell'apartheid".
Commenti
Posta un commento