Ugo Tramballi PUTIN RE D'ISRAELE

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PUTIN RE D'ISRAELE
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 C’era una tradizione nel potere politico e militare israeliano: si trattasse di un’operazione antiterrorismo, della lenta vendetta contro gli organizzatori della strage olimpica di Monaco o di un bombardamento in Siria, l’ordine era di tacere. Raramente negare con sdegno; più spesso non confermare né smentire, ma solo se si lasciano tracce compromettenti. Ammettere, mai. Lunedì scorso quattro F16 sono in missione tra Libano e Siria, per distruggere una struttura militare che produceva armi di precisione per iraniani ed hezbollah. Contemporaneamente un Ilyushin dell’intelligence militare russa inizia la manovra di avvicinamento a Latakia, sulla costa molto più a Nord. L’antiaerea siriana confonde amici, nemici e distanze, e abbatte il velivolo russo con 15 uomini a bordo. Il ministero della Difesa a Mosca accusa gli israeliani e reagisce con durezza: “provocazione ostile”, “ci riserviamo il diritto di rispondere”. Passa un altro giorno ed è Putin a commentare, smentendo i suoi militari: “Sembra una catena di tragiche circostanze. Gli israeliani non hanno abbattuto il nostro aereo”.
Questi i fatti. A parte la morte di 15 uomini, la cosa più importante è che per la prima volta Israele ha ammesso di aver compiuto un bombardamento in territorio nemico. Di più: ha consegnato ai russi prove e dettagli della missione per dimostrare che era lontana da Latakia, che in nessun modo diretto o indiretto era responsabile dell’abbattimento dell’Ilyushin. Bibi Netanyahu e il capo di stato maggiore Gadi Eisenkot  hanno mandato le condoglianze e si sono comunque scusati mentre continuavano a professare la loro innocenza, rivelando qualche preoccupazione.
Titolando il suo commento “La Siria non è un poligono di tiro”, il quotidiano Ha’aretz offriva una spiegazione logica dell’inconsueto comportamento israeliano: “Con gli Stati Uniti assenti dal fronte siriano, la Russia è un partner essenziale nella battaglia contro il consolidamento iraniano” in Siria. Ma non è solo per questo che Israele teme la Russia.
A Netanyahu basta una telefonata alla famiglia Trump/Kushner per dire all’America cosa fare: chiudere l’ambasciata palestinese a Washington, aprire quella americana a Gerusalemme, non negoziare con Hezbollah né Hamas, uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, avere a prezzo di svendita gli F16 più avanzati. Se ci fosse qualche problema – ma con i Trump/Kushner non ce ne sono mai – ecco i pompieri dell’Aipac, la lobby ebraica di Washington.
Con la Russia no. Putin ha ampiamente dimostrato di non essere un antisemita come invece sono sempre stati molti altri russi. Stabilito questo, per tutto il resto Israele è parte del gioco mediorientale: una pedina molto importante ma non meno dell’Iran, nella visione geopolitica russa. Se Netanyahu si serve della comunità ebraica americana per condizionare Washington, Putin si serve degli immigrati russi in Israele per influenzare Gerusalemme.
La Russia è senza dubbio un avversario dell’Occidente: con i suoi comportamenti è sempre più vicina alla definizione di “nemico”. Dopo aver mestato nelle elezioni americane, sta aiutando tutti i partiti sovranisti del vecchio continente ad affondare i sistemi liberali europei.
Ma Putin è “l’ultima grande speranza bianca” per una possibile pacificazione del Medio Oriente. Non solo nel contesto Siria-Turchia-Iran. La Russia è la sola ad avere il potere d’imporre a israeliani e palestinesi il ritorno al negoziato. Se non ci fosse già così troppa carne al fuoco nella regione, probabilmente Putin lavorerebbe per quell’obiettivo sfuggito ai presidenti americani da Jimmy Carter in poi: una pace fra Israele e Palestina. Difficilmente gli israeliani potrebbero dire no a Putin; ancor meno i palestinesi avrebbero il coraggio di continuare nel loro massimalismo suicida come hanno sempre fatto con le proposte americane.
Per decenni Haim Weizmann aveva corteggiato gli inglesi per la promozione della Yishuv ebraica in Palestina, ottenendo la prima dichiarazione a favore di uno stato: il ”focolare ebraico” della Dichiarazione Balfour nel 1917. All’inizio degli anni ’40, quando subentrò a Weizman alla guida dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion capì che dopo la guerra, il potere sarebbe stato degli americani e cercò la loro amicizia. Ora tocca alla Russia.
Nell’estate 2015, quando i turchi abbatterono un jet russo al confine siriano, Bibi Netanyahu corse immediatamente a Mosca per creare le condizioni affinché un incidente del genere non potesse accadere con gli israeliani. Fu attivata una linea rossa tra i leader, e le informazioni sui raid israeliani in Siria e Libano fluirono come la Moscova davanti alle mura del Cremlino. Dall’inizio del 2017 sono state 200 missioni e Mosca è sempre stata informata.
Dal 2015 Netanyahu è stato dieci volte in Russia fra Sochi e la capitale. All’ultima parata della Vittoria nella piazza Rossa, è anche salito sul mausoleo di Lenin accanto a Putin e ai suoi generali. Prima di partire per Mosca, uno dei suoi ufficiali gli aveva ricordato una massima che s’insegna alla scuola di guerra israeliana: “Devi sempre ricordare la prima lezione di storia militare: non scherzare con i russi”.

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