Umberto De Giovannangeli Uri Avnery, in memoria di un grande israeliano





Giornalista indipendente, scrittore impegnato, paladino dei diritti umani... Sono tante le definizioni che vengono in mente a chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerlo. Ma nessuna di esse, neanche se assommate, riescono a contenere e dar conto appieno di chi sia stato Uri Avnery, scomparso ieri a Tel Aviv all'età di 94 anni.
Se David Ben Gurion è stato il padre della patria, Uri Avnery ne è stato la coscienza critica, di certo il padre del pacifismo israeliano. Era un giornalista di talento - direttore per quarant'anni del settimanale Haolam Hazeh, ha scritto fino alla morte anche sul quotidiano Haaretz, un intellettuale scomodo, un precursore dei tempi. Idealità e concretezza. Fu il primo israeliano a incontrare, era il 1982, quello che per Israele era il grande nemico: Yasser Arafat. Quell'intervista fece scalpore, sconvolse Israele, perché, a quei tempi, come ricordava lo stesso Avnery ritornando a quell'evento, anche a sinistra Mr. Palestine era considerato un "nuovo Hitler".
Un precursore dei tempi, dicevamo. Perché Uri aveva capito, prima degli altri, che la pace si fa con il nemico, e che una pace giusta, stabile, duratura per essere tale deve riconoscere le ragioni dell'altro da sé. La pace come un incontro a mezza strada tra i sogni, le speranze, il dolore, l'insicurezza, di due popoli. Undici anni dopo quell'intervista "scandalosa", sul prato della Casa Bianca l'uomo che allora guidava Israele strinse la mano del "nemico", suggellando così la stagione, purtroppo breve, della speranza. Quell'uomo non era mai stato un pacifista, aveva passato tutta la sua vita a combattere gli Arabi e a difendere lo Stato ebraico, ma proprio per questo aveva compreso, che la sicurezza di Israele non poteva fondarsi sulla forza del suo esercito e su un popolo che aveva imparato a vivere in trincea. Quell'uomo si chiamava Yitzhak Rabin. Per la sua scelta di pace, per aver stretto la mano a Yasser Arafat, fu additato dalla destra israeliana come un traditore. Quella campagna d'odio armò la mano del suo assassino, il giovane zelota Yigal Amir.
Il pacifismo in Israele è qualcosa di complesso, non facile da spiegare. Di certo, non è una scelta ideologica, pregiudiziale. Non è rifiuto di difendere, anche con le armi, il proprio Paese. Uri Avnery aveva partecipato alla Guerra d'indipendenza (1948) ed era rimasto gravemente ferito. Nel suo curriculum vitae c'è l'essere stato decorato combattente non solo nella Guerra d'indipendenza, dove si è battuto come comandante di squadra nella Brigata Givati, oltre l'aver militato nel movimento sionista "Irgun" ai tempi del mandato britannico. E fu proprio da quella non metaforica trincea, che maturò la convinzione che l'ha accompagnato per il resto della sua lunga, intensa vita: per Israele la più grande "battaglia" da vincere è quella della pace.
Una pace che riconosca il diritto dei palestinesi a un loro Stato indipendente, e riconoscere questo diritto non era una concessione, o peggio ancora una resa ai "terroristi", ma un "regalo" che Israele faceva a se stesso, la condizione per restare uno Stato democratico. Che per essere tale, insisteva Avnery nei nostri incontri, non può trasformarsi in forza di occupazione. Non c'è pace senza giustizia, era il suo profondo convincimento, perché la pace, quella vera, non può risolversi nella ratifica dei rapporti di forza maturati sul campo.
Uri Avnery era un utopista pragmatico. Un combattente per le libertà. E per i diritti dei popoli.
"La Soluzione dei due Stati non né buona né cattiva, è l'unica. È l'unica soluzione che ci sia. So che ci sono un certo numero di buone, anche ammirevoli persone che credono nella cosiddetta Soluzione di uno Stato. Vorrei chiedere loro di prendere in considerazione i dettagli: cosa sembrerebbe, come potrebbe in realtà funzionare, l'esercito, la polizia, l'economia, il parlamento. Apartheid? Guerra civile perpetua? No. Dal 1948 tutto è cambiato, ma niente è cambiato. Spiacente, la Soluzione dei due Stati è ancora l'unico gioco possibile", così il fondatore di Gush Shalom, concludeva un suo articolo, alla vigilia della Conferenza di Parigi. Era il 16 gennaio 2017. Uri era già malato, ma l'usura del tempo non aveva minimamente intaccato la sua passione civile, il suo saper andare controcorrente, una lucidità intellettuale che arricchivano ogni suo articolo o presa di posizione. Sapeva il valore delle parole, e quando ne utilizzava di forti, era per racchiudere in esse sentimenti e riflessioni che non potevano, non dovevano essere addolciti.
Valeva per Gaza, in quelli che Uri Avneri definì, per Israele, i giorni della vergogna (la repressione delle Marce del Venerdì, ndr): "Mentre gli abitanti della Striscia di Gaza sono strangolati, privi di medicine, privi di sufficiente cibo, privi di acqua pura, privi di elettricità, il nostro governo cadrà nella trappola dell'illusione e crederà che Hamas collasserà? Non succederà, per certo. Come cantavamo nella nostra gioventù: 'Nessun popolo si ritira dalle trincee della sua vita'. Come gli ebrei stessi hanno dimostrato per secoli, non c'è limite a quello che un popolo può sopportare quando la sua stessa esistenza è in gioco. Questo è quello che ci racconta la storia. Il mio cuore è con il popolo di Gaza. Voglio chiedere loro perdono, nel mio nome e nel nome di Israele, il mio Paese. Sogno il giorno in cui tutto questo cambierà, il giorno in cui un governo più saggio accetterà una Hudna (tregua, ndr), aprirà il confine e permetterà al popolo di Gaza di tornare al mondo. Anche ora, io amo Gaza, con l'amore che la Bibbia dice essere forte quanto la morte", scriveva Avnery. Conosceva bene Gaza, l'aveva visitata più volte, raccontata da giornalista. Ne aveva conosciuto i leader ma, soprattutto, aveva parlato con la gente della Striscia, sondandone gli umori, descrivendone le paure e il desiderio più grande: vivere in libertà e non più costretti in un'enorme prigione a cielo aperto, isolata dal mondo.
"La storia ha dimostrato più volte che terrorizzare una popolazione la induce a stringersi ai suoi leader e odiare il nemico ancora di più...", aveva annotato in un suo reportage. È così. Senza memoria non c'è futuro. Soprattutto un futuro di pace, in democrazia. Uri Avnery lo aveva imparato sulla propria pelle: era nato nel 1923 in Germania, che ha lasciato con la famiglia per sfuggire alle persecuzioni naziste arrivando nell'allora Palestina. Anche per questo vissuto personale, Avnery aveva combattuto per dare agli ebrei un focolaio nazionale. Ma mai, mai, aveva accettato che la memoria dell'Olocausto potesse essere utilizzata da leader politici di qualsiasi coloritura politica, per giustificare l'ingiustificabile, per esigere dal mondo, nel nome di quella tragedia, impunità e complicità nell'opprimere un altro popolo.
Uri Avnery era un grande israeliano. Amava il suo Paese. E per questo si è battuto, fino all'ultimo giorno di vita, perché chi è stato vittima non si trasformasse in carnefice.

Uri Avnery, in memoria di un grande israeliano

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