Ben White Perché definire Israele uno Stato di apartheid o razzista non è antisemita
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giovedì 2 agosto 2018, Middle East Eye
Per
i palestinesi e per i loro sostenitori una definizione di antisemitismo
non può essere slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di
Israele e dalle sue politiche in corso
Il
convulso dibattito sulla definizione di antisemitismo della
“International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza
Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione
intergovernativa che intende promuovere la memoria dell’Olocausto
formata da 31 Paesi membri, ndtr.] – o, più precisamente, sulla
definizione ed esemplificazione dell’antisemitismo – si è concentrato su
quanto il documento limiti la possibilità di criticare lo Stato di
Israele e delegittimi la solidarietà con i palestinesi.
Qualcuno,
come Jonathan Freedland, editorialista di “The Guardian” [quotidiano
inglese di centro-sinistra, ndtr.], scrivendone lo scorso venerdì, ha
difeso il documento dell’IHRA dal timore che “metterà a tacere le voci a
favore dei palestinesi”, dando un’interpretazione in malafede e
improbabile del testo, e delle sue implicazioni.
“Si
può, se si vuole, dire che tutto ciò che lo Stato di Israele ha fatto
dalla sua nascita è stato razzista,” ha sostenuto Freedland. “Quello che
è proibito è etichettare come impresa razzista “uno Stato di Israele” –
il principio per cui gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla
terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”
Una posizione debole
Per
prima cosa, rivediamo esattamente il testo in questione, parte del
quale compare nel documento IHRA come lista di esempi di antisemitismo
contemporaneo: “Negare al popolo ebraico il diritto
all’autoedeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza di uno
Stato di Israele è un’iniziativa razzista.”
Mettere
in rilievo il riferimento a “uno” e non “allo” Stato di Israele è una
posizione molto debole. Il documento dell’IHRA ospita nove riferimenti
ad Israele in totale, e tutti chiaramente riguardanti lo Stato di
Israele attualmente esistente, non uno [Stato] ipotetico (il che,
ovviamente, non avrebbe alcun senso).
Allo
stesso modo la definizione di antisemitismo in una bozza di lavoro
diffusa (e poi lasciata cadere) dall’ormai defunto Centro Europeo di
Monitoraggio su Razzismo e Xenofobia – su cui il documento dell’IHRA è
in gran parte basato – mette anche in chiaro che l’esempio in questione
si riferisce all’attuale Stato di Israele.
Ma
non basta. Il documento dell’IHRA introduce la lista di casi affermando
che essi “potrebbero” essere esempi di antisemitismo, “prendendo in
considerazione il contesto generale”. Queste specificazioni vengono
enfatizzate da quanti intendono minimizzare la possibilità che il
documento abbia un effetto deterrente.
Tuttavia,
dato che questo elenco include casi ben definiti di antisemitismo come
“invocare, favorire o giustificare l’uccisione o il ferimento di ebrei” e
la negazione dell’Olocausto, non c’è da stupirsi che la specificazione
“potrebbero” sia spesso in pratica omessa in tutti gli esempi
illustrativi.
E
in pratica il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per attaccare i
palestinesi e i loro sostenitori e per sostenere che descrivere Israele
nei termini di apartheid o colonialismo di insediamento sia
“antisemita”.
Esempi istruttivi
L’anno
scorso alcuni funzionari dell’”Università del Lancashire Centrale”
hanno annullato un dibattito dell’”Israeli Apartheid Week” [Settimana
contro l’Apartheid Israeliano, iniziative annuali organizzate dai
movimenti filopalestinesi in tutto il mondo, ndtr.] perché avrebbe
presumibilmente contravvenuto alla definizione dell’IHRA. All’inizio di
quest’anno “Campagna contro l’Antisemitismo” [ong costituita dalla
comunità ebraica britannica, ndtr.] ha sbandierato “successi simili”
nell’ottenere la cancellazione di eventi organizzati da studenti.
Anche
alcuni militanti della “Federazione Sionista del Regno Unito”, il
“Centro di Comunicazione e Ricerca Britannico-Israeliano” (BICOM),
insieme a parlamentari come Joan Ryan del partito Laburista e il
conservatore Matthew Offord, hanno presentato una richiesta al governo
per vietare eventi di “Israeli Apartheid Week” nelle università –
citando di nuovo la definizione dell’IHRA.
Persino
il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” – sostenitore del
documento dell’IHRA – ha riconosciuto che “c’è una preoccupante
resistenza da parte delle università nell’adottarla (la definizione) e
la libertà di parola è presentata come ragione principale della loro
riluttanza.”
Proprio
questa settimana un consigliere conservatore di Barnet – la prima
autorità locale ad aver adottato la definizione dell’IHRA – ha
presentato una mozione che intende proibire a qualunque gruppo o persino
singolo individuo che appoggi la campagna guidata dai palestinesi di
boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) [contro Israele] di
affittare strutture comunali.
Con
un altro esempio istruttivo, quest’anno esponenti di organizzazioni
come il “Comitato degli Ebrei Americani” e il “Congresso degli Ebrei
Europei” hanno cercato di vietare all’attivista del BDS palestinese e
difensore dei diritti umani Omar Barghouti di parlare al parlamento
europeo.
In
una lettera co-firmata le organizzazioni hanno sostenuto che “gli
attivisti del BDS sono sistematicamente impegnati in pratiche
considerate antisemite in base alla definizione di antisemitismo dell’
International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA),” visto che citano
regolarmente l’esempio di Israele come un’“impresa razzista”.
Si
noti ancora come, nella pratica, la specificazione “potrebbe” sia resa
irrilevante: un palestinese che desideri porre fine alla violazione dei
diritti del suo popolo è palesemente calunniato come razzista.
Impreciso e redatto male
Significativamente,
anche due figure chiave che hanno partecipato alla formulazione del
testo dell’IHRA riconoscono il suo impatto sulla libertà di parola,
benché da prospettive molto diverse.
Kenneth
Stern, uno dei principali estensori della definizione dell’EUMC, in
seguito ha denunciato come i gruppi filoisraeliani abbiano utilizzato il
documento “con la delicatezza di un maglio”. A novembre Stern ha detto
al congresso USA che l’inserimento della definizione nel sistema
giuridico avrebbe “congelato” il “discorso politico” degli studenti
filopalestinesi.
Se
Stern ha manifestato disappunto per come il testo dell’EUMC è stato in
seguito utilizzato (pur senza riconoscere il proprio ruolo nel aver
collaborato ad un simile risultato), invece l’architetto del documento
dell’IHRA è assolutamente soddisfatto del suo ruolo nel censurare il
punto di vista palestinese.
Mark
Weitzman, che lavora al “Centro Simon Wiesenthal” con sede negli USA, è
stato la “figura principale” nel riuscire a proporre e far adottare il
documento dell’IHRA. Quando lo scorso anno l’”Università del Lancashire
Centrale” ha annullato l’evento dell’”Israeli Apartheid Week”, Weizman
ha salutato la decisione come “una chiara prova che questa definizione
accettata a livello internazionale può giocare un ruolo fondamentale
nella lotta contro l’antisemitismo.”
Nonostante
l’evidenza, qualcuno sostiene che quelli che utilizzano il documento
dell’IHRA per censurare semplicemente non lo stanno applicando
“correttamente”. Ma, nel migliore dei casi, ciò conferma semplicemente
le critiche sollevate da gente come David Feldman, direttore del “Pears
Institute for the study of Antisemitism” [Istituto Pears per lo Studio
dell’Antisemitismo, con sede a Londra, ndtr.], e Geoffrey Bindman,
avvocato della Corona – cioè che la definizione è “imprecisa in modo
sconcertante” e “redatta male”.
Non
c’è niente di contraddittorio nell’affermazione che un documento
impreciso possa essere utilizzato per censurare (come a quanto pare
crede Freedman). Al contrario, come abbiamo visto con i tentativi di
fare leggi contro l’”estremismo”, un linguaggio generico porta
direttamente a preoccupazioni riguardo all’impatto sulla libertà di
parola.
Stato etnico
In
conclusione, torniamo all’affermazione sostenuta da Freedland ed altri,
secondo cui l’esempio dell’IHRA in questione riguardi un “principio” –
cioè “che gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero
avere una patria e un rifugio per sè.”
Qui,
e non per la prima volta, Freedland utilizza termini come “patria” e
“rifugio” mentre quello di cui si sta realmente discutendo è uno Stato.
Il documento dell’IHRA non riguarda un “principio” – riguarda
l’associazione dell’autodeterminazione non solo a uno Stato, ma a uno
Stato etnico.
Per
i palestinesi le conseguenze di tale associazione non sono per niente
teoriche: la creazione dello Stato di Israele come “Stato ebraico” ha
significato pulizia etnica ed esilio forzato, e la sua continua
esistenza come tale significa spoliazione, discriminazione e
disumanizzazione continue.
Come
hanno notato recentemente due difensori dei diritti umani palestinesi
che vivono a Londra: “Per i palestinesi l’idea che sostenere che
‘l’esistenza dello Stato di Israele è un’impresa razzista’ sia in sé
antisemita è slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di
Israele, e dalle sue continue politiche.”
Leggendo
una lettera, pubblicata da “The Guardian” questa settimana, di un
gruppo di palestinesi-britannici, che affermano il proprio diritto ad
una “dimensione pubblica” della “realtà” della loro esperienza passata e
presente, mi sono ricordato di qualcosa che un docente palestinese mi
aveva detto quando ero uno studente universitario
“Come
può essere antisemita per me oppormi alla mia spoliazione?”, ha chiesto
in forma retorica. “E di conseguenza,” ha aggiunto, “come può essere
antisemita per te essere solidale con me?” Infatti. Eppure questa è
l’assurda equazione su cui Israele ed i suoi amici hanno sempre cercato
di insistere e a cui bisogna continuamente opporsi.
– Ben White è autore del recente libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe
nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. È un giornalista e
scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.
Le
opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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