Alberto Negri : l'Italia , la Libia, l'UE,la Cina



L’italiano medio crede ormai fermamente che l’Unione europea sia la matrigna cattiva che gli propina ogni giorno una mela avvelenata. Ma questa è la favola di Biancaneve cui si aggrappano i nostri politici, certo non da oggi, per mascherare i loro fallimenti. Una versione della storia smentita anche dalla Corte dei Conti. Quanto ci costa davvero l'Unione europea? E soprattutto cosa c'è di vero nell'affermazione che l'Italia versa 20 miliardi l'anno al bilancio dell'Unione europea? 

In realtà l'Unione spende in media circa 12 miliardi l'anno in Italia. Nel 2015, l'Unione europea ha speso da noi 12,3 miliardi e nel 2016 la cifra è stata di 11,6. Ma i versamenti dal ministero del Tesoro italiano al bilancio comunitario sono stati nel 2015 di 14,2 miliardi di euro e nel 2016 di 13,9 miliardi. I dazi doganali incassati per conto dell'Unione europea sono stati pari a 1,7 miliardi nel 2015 e 1,8 miliardi nel 2016.

Nel 2016 il saldo netto negativo del nostro paese è stato pari a 2,3 miliardi. La Germania ha avuto un saldo netto negativo nello stesso anno di 12,9 miliardi di euro, la Francia uno di 8,2 miliardi e il Regno Unito di 5.6 miliardi di euro. 

Il nostro saldo netto negativo non è trascurabile, ma gli altri grandi paesi dell'Unione hanno saldi negativi molto più consistenti del nostro, almeno finora.

Nel 2015 la differenza è stata inferiore a 1,9 miliardi di euro, nel 2014 era di 3,7 miliardi scarsi, nel 2013 di 3,2 miliardi, nel 2012 di 4 miliardi e nel 2011 c’era stato il record di 4,75 miliardi. Si può dire che il trend sia stato di una progressiva riduzione del divario tra contributi dati e ricevuti.

Il problema è che noi italiani non usiamo bene l’Unione europea. Ma la colpa non è di Bruxelles, è tutta nostra. Come avverte la stessa Corte dei Conti: “la dinamica degli accrediti dipende anche dalla capacità progettuale e gestionale degli operatori nazionali e dall'andamento del ciclo di programmazione, quindi il saldo netto negativo non è di per sé espressione di un “trattamento” deteriore per l'Italia rispetto a quello di Paesi che si suppongono più avvantaggiati”. 

In poche parole i soldi che arrivano dall’Europa bisogna saperli spendere e l’Italia non brilla particolarmente in questa specialità. Restiamo insomma tra i Paesi ricchi dell’Unione europea che, in base alle regole comunitarie, contribuiscono maggiormente allo sviluppo comune. La differenza tra quanto diamo e riceviamo dipende però anche dalla capacità del Paese di spendere i fondi comunitari che vengono messi a disposizione. 

L’Italia è seconda nell’Unione per fondi strutturali ricevuti da Bruxelles ma è sestultima su 28 stati membri per utilizzo dei soldi ricevuti. Fa meglio la Polonia di gran lunga il primo beneficiario europeo, mentre l’Italia è sopravanzata anche da Spagna e Romania, rispettivamente terzo e quarto maggiori beneficiari.

I dati sono aggiornati alla fine dell’ottobre 2017 dalla Commissione Ue in una relazione sull’uso dei cinque fondi strutturali europei: Fondo agricolo per lo sviluppo rurale, per la Coesione, per lo Sviluppo regionale, per la Pesca e Fondo sociale. 

Per l’Italia, che nel settennato 2014-2020 può contare su 73,6 miliardi (42,67 provenienti dal bilancio Ue), i fondi impegnati ammontano a 27,1 miliardi di euro, il 37%, ma solo 2,4 di questi _ appena il 3% del totale – sono già stati spesi. Al contrario, la media Ue è di un 44% di fondi già impegnati e un 6% di fondi spesi.

Entro il 31 dicembre 2018 regioni e ministeri italiani dovranno spendere 3,6 miliardi di fondi strutturali europei assegnati proprio con la programmazione 2014-2020 attraverso il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale europeo (Fse). 

Per chi non ci riuscirà scatterà la tagliola del disimpegno automatico in base alla regola che se entro tre anni dall’impegno di spesa indicato dalla regione o dal ministero non è stata presentata la domanda di pagamento alla Ue, Bruxelles “cancella” automaticamente la relativa quota di finanziamento.

Ecco perché l’Unione europea non è lo specchio deformante delle nostre brame, la matrigna non è così cattiva e noi non siamo Biancaneve. Quanto ai sette nani anche i più ingenui capiscono chi sono. E riguardo al principe che risveglia l’Italia non è previsto né dai fratelli Grimm né dalla Disney. 








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[L’analisi] La polveriera Libia: rischiamo di perdere anche Tripoli. E il traffico di migranti è diventato una industria

 ’Italia rischia di perdere anche Tripoli? Il governo di Fayez Sarraj, appoggiato dalla brigate islamiste ma sotto attacco costante delle altre milizie _ nonostante l’ennesima e fragile tregua _ appare sempre più debole, il generale Khalifa Haftar in Cirenaica è sempre più minaccioso nei confronti dell’Italia, la Francia di Macron sempre più determinata a perseguire la sua agenda per convocare elezioni entro la fine dell’anno. 

Ma qual è la politica italiana in Libia? Nessuno è in grado davvero di rispondere nonostante le visite di Salvini e Moavero a Tripoli. Anzi l’Italia sembra quasi isolata, nonostante il governo di Tripoli sia quello riconosciuto dalla comunità internazionale in contrapposizione al potere di Haftar, spalleggiato da Francia, Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti. In realtà anche l’appoggio americano alle posizioni italiane appare assai evanescente: l’impressione è che sulla Libia Trump abbia raccontato al premier Conte le stesse fesserie che Obama raccontava a Renzi, quello di un nostro ruolo preminente nelle faccende libiche che in concreto le altre potenze non ci riconoscono se non a parole. Anche la pubblicizzata conferenza sulla Libia a Roma, da tenersi in ottobre, appare incongruente se prevalesse la posizione francese e di Haftar per andare a nuove elezioni, anche solo presidenziali (senza le legislative e riforma costituzionale). 

In poche parole si rischia di dare via libera, anche se in maniera confusa, alle ambizioni presidenziali di Haftar con il quale l’Italia ha forti difficoltà di dialogo. Le proposte di Mosca di fare da mediatrice con il generale sono state sempre state lasciate cadere dalla diplomazia italiana che non intende legittimare l’ex ufficiale di Gheddafi che un tempo comandava il contingente africano libico in Chad prima di andare in esilio negli Usa sotto l’ala della Cia. Il generale protegge gli interessi francesi in Cirenaica, l’Egitto lo sostiene con il palese obiettivo di avere una “fascia di sicurezza” in Libia mentre la Russia non nasconde l’ambizione di tornare nell’area con una base militare e di riaprire il mercato libico alle sue forniture belliche. 

Ma prima o poi anche gli italiani dovranno negoziare davvero con Haftar e vedremo se ci sarà tra breve un incontro con il ministro degli Esteri Moavero: l’immigrazione, che parte delle coste della Tripolitania, è un tema fondamentale per noi ma la stabilizzazione della Libia, che passa dalle esportazioni di petrolio, non lo è di meno: senza una ripresa dell’economia è assai difficile convincere le milizie libiche a rinunciare agli introiti dei traffici di essere umani.

In Libia le milizie sono le principali responsabili del processo di industrializzazione e concentrazione dei traffici illeciti _ compreso quello di esseri umani_  cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Si è anche assistito a una progressiva concentrazione del traffico di migranti. Dal punto di vista geografico, fino a inizio 2015 le partenze, pur concentrandosi comunque in Tripolitania, erano ancora più equamente distribuite lungo la costa libica. Da quel momento in avanti si è assistito a una loro concentrazione in aree di poche decine di chilometri, alternativamente a ovest di Tripoli, tra Sabratha e le cittadine circostanti, o immediatamente a est, tra Misurata e Gasr Garabulli. Le località da cui partono i migranti si sono insomma ridotte, a testimonianza di un sempre maggiore controllo dei traffici da parte delle milizie di luoghi specifici lungo la costa ovest.


Libia

Come sostiene Arturo Varvelli dell’Ispi, uno dei maggiori esperti di Libia, bisogna anche ripensare al ruolo delle milizie nei negoziati: è giunto il momento di chiedersi se non sia l’intero processo politico a dover essere rivisto, coinvolgendo in particolare quegli attori che sono spesso stati esclusi o almeno formalmente relegati ai margini. Altrimenti il rischio nelle riunioni internazionali è quello di confrontarsi con esponenti politici “presentabili” all’opinione pubblica ma che hanno un parziale se non nullo controllo del territorio: per questo che gran parte degli accordi o rimane carta straccia oppure viene ratificato sulla “parola”, come quello della Francia nel vertice di Parigi in cui si è deciso di andare a elezioni. Ma per contrastare le ambizioni di Macron l’Italia deve anche ripensare il suo ruolo e fino a che punto sia ancora opportuno sostenere Sarraj, benvoluto dalle milizie islamiche e salafite ma assai poco dai suoi potenti nemici libici e stranieri.


   3   La Cina si sta comprando l’Italia (e noi glielo lasciamo fare, perché siamo nei guai)

 

Si parte per vendere e si finisce per comprare. Sembrava che il ministro dell’Economia Giovanni Tria fosse andato in Cina per vendere i titoli del debito italiano e invece è venuto da Pechino l’annuncio che la Banca d’Italia inizierà a diversificare le proprie riserve valutarie includendo il renminbi e quindi titoli di stato cinesi. Non è una novità che dai cinesi compriamo quasi tutto: la Cina è tornata a essere una fabbrica-mondo come lo fu fino alla vigilia della rivoluzione industriale europea.
Importiamo dalla Cina molto di più di quanto esportiamo: quasi il doppio. È il terzo Paese del mondo per valore delle merci che l’Italia importa dall’estero, dopo Germania e Francia. Dalla Cina arrivano prodotti per un valore quasi doppio rispetto, per esempio, a quelli che arrivano dagli Stati Uniti (28,4 miliardi di euro contro 15 miliardi lo scorso anno, secondo i dati del ministero per lo Sviluppo economico).
Per ogni euro che spendiamo in merci prodotte nel loro Paese, i cinesi spendono meno di 50 centesimi in prodotti italiani. Quindi la nostra bilancia commerciale (che a livello complessivo è in attivo) rispetto alla Cina è negativa: alle aziende cinesi sono rimasti 15 miliardi di euro di differenza lo scorso anno, spesi dagli italiani.
La Cina è un destino, non solo segnato dalla storia ma dal presente e dal futuro. È la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, anche se il suo prodotto interno lordo è poco più di sei volte quello dell’Italia, secondo i dati della Banca mondiale: in dollari la produzione cinese vale 12,2 milioni di miliardi e quella dell’Italia 1,9 milioni di miliardi.
La Cina però cresce con tassi di sviluppo molto superiori al nostro e quindi la distanza si sta allargando a dismisura. Basti pensare che vent’anni fa, nel 1998, il Pil dell’Italia era del 20% più alto di quello cinese. Noi andiamo piano, la Cina vola. Eppure le cose non sono così nette quando si scende nel dettaglio, che però è anche sostanza.

Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro

In realtà l’annuncio che la Banca d’Italia compra titoli cinesi nasconde una preciso intento diplomatico ed economico. Il messaggio è indiretto ma chiaro agli interlocutori internazionali: Italia e Cina hanno l’obiettivo comune di difendere la stabilità finanziaria internazionale, i liberi commerci e sviluppare ulteriormente i rapporti economici per cui, dopo gli investimenti diretti già effettuati e le potenzialità ancora inespresse, Pechino ha un interesse concreto alla stabilità italiana.
La verità è che i cinesi dagli italiani comprano assai ma soprattutto quello che a loro interessa, nell’ottica di una strategia di espansione in Europa e nel Mediterraneo. Dal calcio (Inter e Milan) alle quote in gruppi strategici, la Cina è dall'inizio del 2014 sempre più presente nell'industria italiana.
Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.
Gli investimenti cinesi vanno dai 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia all’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell'energia elettrica di Pechino, China State Grid, per un valore complessivo di 2,81 miliardi di euro. Interessati dalle mire cinesi sono stati anche i gruppi dell'agroalimentare, come il brand Filippo Berio, controllato da Salov, in cui il gruppo cinese Bright Food ha acquisito una quota di maggioranza, o quelli della moda, con il passaggio di Krizia al gruppo di Shenzhen, Marisfrolg. Tra gli investimenti più recenti, da ricordare, nel 2017, l'acquisizione del gruppo biomedicale Esaote da parte di un consorzio nel quale figura anche Yufeng Capital, co-fondato dal patron di Alibaba, il gigante dell'e-commerce cinese, Jack Ma.

Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez

L’interesse della Cina verso l'Italia non è sfuggito ai nostri concorrenti: secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal Mercator Institute for China Studies di Berlino e dal gruppo di consulenza Rhodium Group, tra il 2000 e il 2016, l'Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell'Unione Europea, come meta degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro. Hanno fatto meglio solo la Gran Bretagna, a quota 23,6 miliardi, e la Germania, in seconda posizione con 18,8 miliardi di euro. La tendenza è cambiata alla fine del 2016 quando Pechino ha dato un taglio allo shopping sfrenato dei gruppi cinesi all'estero per concentrarsi sui progetti di sviluppo industriale e su quelli che rientrano nell'iniziativa di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Europa e Africa Belt and Road, lanciata dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.
Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez. Da quando i cinesi gestiscono il Pireo, il traffico dei container è aumentato di 6 volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione mondiale alla 36esima, diventando il terminal con la crescita più rapida al mondo.
Dietro a questa strategia cinese non ci sono solo i commerci. Secondo i dati sulla spesa militare globale diffusi dal Sipri la Cina è il secondo paese per spesa militare complessiva dopo gli Stati Uniti, che con oltre 600 miliardi di dollari contro 225 conservano saldamente la prima posizione. Quello che colpisce è lo straordinario aumento della spesa militare cinese, più che raddoppiata dal 2008 a oggi, mentre gli Usa l'hanno diminuita del 14%. Un evento di portata storica per la semplice ragione che certifica la Cina come potenza non solo economica ma anche militare: un evento che ci riguarda direttamente.
Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta” agevolata dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi. È proprio l’ “hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale proiettata anche verso il Mediterraneo oltre che in Africa, su un palcoscenico dove dominano Washington e la Nato. Forse ancora non a lungo: anche per questo l’Italia ha un ruolo non secondario nelle strategie cinesi.


 


 

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