1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico
1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico
Shmuel Sermoneta-Gertel 15 maggio 2018,Mondoweiss
Shmuel Sermoneta-Gertel
15 maggio 2018,Mondoweiss
Quest’anno
segna non solo il 70esimo anniversario della Nakba [espulsione dei
palestinesi dai territori su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele,
ndtr.], ma anche il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. I
due eventi sono strettamente correlati in molti modi, che intenderei
esplorare attraverso lo sguardo di un eminente ebreo antisionista
dell’inizio del XX secolo, Aharon Shmuel Tamares (1869-1931), rabbino
della città di Milejczyce (Russia, e in seguito Polonia).
Nel suo ultimo lavoro, “Sheloshah Zivugim Bilti Hagunim” (“Tre unioni inopportune”),
scritto in risposta alla rivolta in Palestina del 1929 [rivolta
palestinese contro la dominazione inglese e la presenza sionista, ndtr.]
e pubblicato circa un anno prima della sua morte, Tamares spiegò la
propria contrarietà al movimento sionista, soprattutto riguardo
all’atteggiamento sionista verso la Grande Guerra ed il suo esito.
Tamares
inizia la sezione del suo testo a questo riguardo (“Parte 3: L’unione
tra ‘la rinascita della lingua e della cultura ebraica’ e il sionismo”)
con un’inequivocabile denuncia della guerra e della divisione del
bottino tra le potenze vittoriose:
Le
grandi potenze mondiali hanno deciso di discutere su chi fosse più
potente – una discussione infuocata. Nel frattempo, hanno dato alle
fiamme migliaia di città e villaggi e ricoperto la terra intera di
vittime. Dopo aver concluso il loro “elegante” dibattito, i membri della
parte i cui fucili avevano avuto l’ultima parola e di cui il mondo è
caduto preda, hanno convenuto di spartirsi il pianeta tra loro, per
smembrarlo in piccoli Stati che obbedissero al loro volere.
Definisce
la Prima Guerra Mondiale “il più grande scandalo della storia del
mondo” e paragona la conferenza di Parigi (Versailles) ad un gruppo di
macellai che stanno intorno a un tavolo per sezionare la vittima.
Creando numerosi nuovi Stati nazionali, argomenta Tamares, le potenze
hanno dato supporto all’idea di nazionalismo etnico – che
inevitabilmente sfocia, secondo Eric Hobsbawm, nell’“espulsione di massa
o nello sterminio delle minoranze.”
È
questo nazionalismo etnico che Tamares identifica come la causa prima
della violenza anti-semita e della discriminazione contro gli ebrei in
Europa nel periodo post bellico, soprattutto nei nuovi Stati
etnico-nazionali creati nel centro e nell’est dell’Europa. Tamares
inoltre cita la normalizzazione della brutalità come fattore
esacerbante, prevedendo che d’ora in avanti chi ha il potere farà il
ragionamento che “se è stato accettabile, durante la guerra, trattare
milioni di persone come carne da macello, viene di conseguenza che si
possano anche imprigionare in gran numero, che possano semplicemente
morire di fame.”
Queste
ragioni stanno alla base dell’accusa di Tamares al sionismo ed alla
leadership sionista: la loro glorificazione ideologica del concetto
stesso di guerra e la loro attiva partecipazione a quell’abominio che fu
la Prima Guerra Mondiale (nella “Legione ebraica” ed in azioni di
spionaggio contro l’impero ottomano in Palestina); la loro adozione del
principio di nazionalismo etnico, incoraggiando in tal modo altri e
gettando sé stessi nell’abisso morale dell’espropriazione colonialista
degli abitanti nativi della Palestina.
Tamares
non afferma che il movimento sionista non avesse queste aspirazioni
prima della guerra, ma che la guerra ed il “Balfourismo” [riferimento al
ministro inglese Balfour, che diede il nome alla famosa dichiarazione
che impegnò la Gran Bretagna a favorire un focolare ebraico in
Palestina, ndtr.], al quale ha dato impulso, le hanno rese possibili.
Incoraggiati
dalla Dichiarazione Balfour e dalle decisioni della Conferenza di
Parigi e della Società delle Nazioni, i leader sionisti non fecero
segreto del fatto che la loro intenzione era di portare gli ebrei in
Palestina non come normali immigrati, ma come “occupanti…per imporre il
proprio comando sui suoi originari abitanti….per essere padroni della
terra…per diventare maggioranza…e trasformare i suoi precedenti
abitanti, gli arabi, in una minoranza.” Con il potere di Balfour dietro
di loro (non solo come ideatore della Dichiarazione Balfour, ma anche
come uno degli architetti di Versailles), pensarono di poter ignorare il
fatto che “la terra in questione non era una sorta di nuova isola
disabitata che avevano trovato alla fine del mondo e nei mari lontani,
ma la patria di un popolo che senza dubbio avrebbe vissuto le loro
aspirazioni alla “sovranità” e allo “Stato” come una spina nel fianco”.
Prosegue citando un racconto del Talmud che parla di un gruppo di
marinai che si era fermato a riposare in quella che credevano un’isola.
Dopo un po’ cominciarono a sentirsi i suoi padroni e quando accesero un
fuoco il gigantesco pesce sul cui dorso avevano deciso di stabilirsi si
girò, gettandoli tutti in acqua. “L’analogia, scrive, è ovvia.”
L’affermazione
sionista che gli arabi fossero, nella versione sarcastica di Tamares,
“un popolo incolto che aveva rubato la terra, installandovisi per soli
quindici secoli, che non sono che un giorno e mezzo secondo gli standard
delle antiche tribù “storiche”, ai cui occhi mille anni sono come
ieri”, coincideva perfettamente con il profondo razzismo che ha portato
gli inglesi e la Società delle Nazioni ad appoggiare la creazione di un
“focolare nazionale” ebraico in Palestina.
Alla
base del nazionalismo etnico, secondo Tamares, vi è l’idea che gli
abitanti del mondo si dividano tra coloro che sono “padroni” nei propri
Paesi e coloro che sono “stranieri”, a volte tollerati in vario grado,
ma sempre alla mercé dei primi.
Egli
identifica questa divisione delle persone tra ‘chi è dentro e chi è
fuori’, promossa e perpetuata dalle potenze alla Conferenza di Parigi e
dalla Società delle Nazioni, con il peccato del popolo di Sodoma, per
cui la città venne distrutta da Dio (Genesi 19; vedere anche il Talmud
babilonese: Sanhedrin 109b). È proprio questo approccio che egli
attribuisce al movimento sionista, che accusa sia di fornire aiuto e
sostegno ai nazionalisti europei, responsabili della brutale
persecuzione degli ebrei in Europa, che di cercare di creare un regime
in Palestina in cui anche gli originari abitanti della terra sarebbero
trattati come “stranieri”, costretti a dipendere da un qualunque tipo di
“tolleranza” potesse essere manifestata dai loro “padroni” ebrei.
Questa
giustapposizione tra antisemitismo e sionismo, attraverso la lente del
nazionalismo etnico, è particolarmente interessante, non solo come una
sorta di regola fondamentale (Non fare agli altri…), ma anche in quanto
analisi del sionismo come reazione all’antisemitismo e soluzione della
“questione ebraica”. Tamares sostiene infatti che il sionismo non solo
non ha combattuto l’antisemitismo in Europa, ma lo ha attivamente
incoraggiato accettandone la causa profonda e, a volte, sostenendo i
suoi effettivi esponenti (come “fratelli” ideologici ed anche come
strumenti per i propri fini).
Questo
potrebbe sembrare uno scritto storico e commemorativo, ma non è questa
la mia intenzione. Un secolo dopo l’armistizio del 1918 e 70 anni dopo
la Nakba, il nazionalismo etnico è vivo e vegeto. È per questo che i
dimostranti palestinesi, a Gaza o a Gerusalemme o a Umm al-Fahm, possono
essere colpiti impunemente; che i gazawi possono essere imprigionati in
massa per 11 anni, senza che se ne veda la fine; che i palestinesi in
Cisgiordania possono essere privati dei fondamentali diritti umani; che
ai cittadini palestinesi di Israele si può negare l’eguaglianza; che i
diritti dei rifugiati palestinesi possono ancora essere ignorati.
Come
ai tempi di Tamares, questa ideologia non è feudo esclusivo dei
sionisti, né esiste nel vuoto. E come ai tempi di Tamares, è il
‘balfourismo’ stesso che deve essere contrastato, dovunque cerchi di
dividere il popolo tra “padroni” e “stranieri”.
Shmuel
Sermoneta-Gertel è un insegnante, traduttore e ricercatore indipendente
che vive a Roma. È membro della Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
Commenti
Posta un commento