Tre storie incontrate per caso. Interviste da Gaza a tre feriti della Great Return March
Patrizia Cecconi
20 luglio 2018, Articolo 21
Tre piccole storie, piccole in quanto
brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più
lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha
18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E.,
non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled
Bashir, che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e
che, come loro, è stato ferito dagli snipers israeliani nel
concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì
della Grande Marcia del Ritorno.
Incontrati per caso nell’ospedale Al
Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione
in attesa della marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu
e dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa
attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si
demorde. Il numero dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi
venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole tenacia che ha deciso di
non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto il loro obiettivo,
peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben tre volte
ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino
Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi,
ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in
lingue, una in scienze mediatiche e così via.
Mohammed lo incontriamo sulla porta
dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il
passo invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a
parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della
Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava
il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato
al border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia
di palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera
mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è
presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque
sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.
Quel giorno Mohammed fu colpito a
entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e
la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”.
Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori,
cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70
anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la
maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur
essendo un semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso
sempre accennato che fa supporre si tratti di una persona che sa bene
quel che vuole. Ora vuole che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro
adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come loro, ma non tornerà al
border i prossimi venerdì, perché non riesce a camminare e se un
cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe la sua
famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la
Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai
cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra
operazione ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la
professionalità indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto
improntato a un’ideologia di carattere socialista (in senso proprio) e
quindi medici e infermieri si pongono volontariamente a servizio dei
pazienti considerando questo un dovere morale che si aggiunge a quello
derivante dal giuramento di Ippocrate.
Lasciato Mohammed alle cure mediche con
tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e
con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a
camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche domanda.
E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino
all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei
soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto
vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di
grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più occasioni.
L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo
ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e
invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e
i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled
ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente pacifica,
che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui
era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete
di separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi,
essendo disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino
all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati
feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro i soccorritori.
Parlando della sua vita privata, Khaled
ci dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da
questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per
averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo
sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla
situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al
Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e
così ha lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento.
Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli
capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce a sbarcare il
lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui suoi
figli.
Non è pentito di essere andato al
border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita:
quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella nell’animo
perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito
gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei
soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la
Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre
vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.”
Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di
vedere la Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto
il diritto affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena
arriva il medico che lo ha in cura e non facciamo cinque passi per
raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un giovane su una sedia a
rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si tratta Basel Ayoub,
18 anni.
Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche
lui come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale
Al Awda, perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al
campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda
hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già
organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova
mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba
è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che
scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del
settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare
nell’altro settore dell’ospedale.
Tornando a Basel la sua storia ha
dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’
scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei
auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più.
Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che
sono rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per
sapere dove vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha in questi casi sembra dire “sono
del villaggio o della città da cui hanno cacciato la mia famiglia e in
cui ho il diritto di tornare come stabilisce l’Onu nella Risoluzione 194”
cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i palestinesi al
border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.
Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer,
così risponde suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua
storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I
medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha
colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che è
uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed
uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di
balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con
Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito
la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli
e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!
Ma la storia di Basel è una sorta di
allegoria della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui
è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre
operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei
ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri col
fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i
caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino
ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e
Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che
rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali
proiettili dei killers appostati oltre la rete.
Abbiamo detto che la storia di questo
ragazzo è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per
questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal
giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al
ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha
fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare quando un
cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre
correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui
fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle
spalle è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di
qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad
andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma, ritiene
essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.
In ogni famiglia palestinese c’è almeno
un martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a
ripeterlo sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere
Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto
che i martiri non nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono
la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che
Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso
alcuni giorni fa, era suo cugino e che il dolore per la sua morte si è
trasformato nella maggior convinzione che resistere sia un dovere.
Il padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche
lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso
un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che
vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.
Facciamo tanti auguri a Basel e a suo
padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui
l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da
interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori.
Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo
aver sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe,
sento il Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di
mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.
Israele oggi ha minacciato ancor più
violenza in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme.
Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni.
Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a
giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi
lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al
mondo la verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma
esattamente come Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la
giustizia gli aprirà le braccia.
Intanto tra poco si partirà per i vari
punti del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà
che Israele non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra,
gli stessi che usa contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne
siamo sicuri, anche oggi seguiteranno a volare.
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