Bradley Burston ‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’
‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’
Edo Konrad
2 Luglio 2018, +972
Bradley
Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da
quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi
piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani
hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’
intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle
trasformazioni nella comunità ebraica americana.
Tra
gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a
proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani
progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che
sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che
chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni
prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei
americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in
Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai
consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.
Decenni
dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei
americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle
storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte
di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.
Ciò
di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani
progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi
riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana,
soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad
informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti
rimasti negli USA?
Per
Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è
diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava
veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del
sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa
di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.]
sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e
Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso
in mezzo tra i propri valori e Israele.
Più
la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche
di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani –
ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze.
Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue
opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto,
soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di
una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad
essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di
due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue
minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.
Nonostante
le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston
crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia
d’accordo con quell’ipotesi.
“La
maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e
sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice
l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a
Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti
asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per
molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse
Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”
Eppure,
sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli
ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo
lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno
subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani
sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se
Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra,
le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione
migliore – più sostenibile.”
“Questo
Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli
anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è
immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre
creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia
quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso
sia più possibile.”
Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?
“Mi
piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di
israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese.
Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista –
è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”
L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?
“Credo
che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato
ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca,
ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel
suo rinnovamento.
Bisogna
ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che
vengano a viverci o no – che è estremamente potente. Non si tratta
dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro
popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”
Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?
“Non
sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto
all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico
oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri
tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è
esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al
sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa
estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che
[il sionismo] è, allora non sono sionista.”
Gli
ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e
dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee
progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato
questo Paese?
“La
verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha
condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si
capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e
circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto
l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad
un risultato terribile, in altri casi no.
È
la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di
essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando
di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza
persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non
abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la
giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”
Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?
“Sì,
e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei
palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di
tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero
vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi
assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra
parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose
terribili.
Nel
bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto
perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo
posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che
conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone
che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di
qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”
Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?
“L’unica
cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del
coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo
luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema.
Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del
mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del
cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di
questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è
indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”
* * *
Alcune
settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini
israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che
chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno
feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la
carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.
“Non
so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a
persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in
particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del
Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio
di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele
ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche
tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il
governo lo sa.
Ma
il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito
fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e
lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le
infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle,
impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua
potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le
spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”
“C’è
un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra
israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere
considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il
massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati
che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”
* * *
Non pensi mai di tornare in America?
“C’è
stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo
terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra
figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa
che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere
un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe
sopportarlo?”
Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.
“Io
spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho
detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”
E hai continuato a dirlo da allora.
“Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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