Amos Oz: «I nuovi profeti di Israele»



  REPUBBLICA di oggi, 06/06/2018, a pag. 33

Mi chiedo spesso perché organizzazioni israeliane quali Breaking the Silence ( Shovrim Shtika, “ Rompere il silenzio”), B’Tselem e Peace Now suscitino in tante persone sentimenti di paura, rabbia e ostilità. E non solo tra i simpatizzanti dell’estrema destra, ma anche tra molti che dicono di collocarsi al centro dello spettro politico. Questa ostilità non può essere spiegata soltanto sostenendo che chiunque si opponga a Breaking the Silence è un razzista, né che si stia cercando di far tacere le nostre voci: la stragrande maggioranza dei nostri avversari non lo fa. Neppure possiamo dire che tutti i nostri avversari odino gli arabi, perché, in gran parte, non è così. Qual è il problema allora? Gli israeliani vogliono sentirsi in pace con se stessi e Breaking the Silence impedisce loro di stare bene. Le persone vogliono che lo Stato di Israele goda di una buona immagine, ma, a loro avviso, Breaking the Silence e B’Tselem ne promuovono una negativa. È ben comprensibile che una maggioranza degli israeliani provi disagio davanti a un’immagine negativa dello Stato di Israele. Essi credono, sbagliando, che a promuovere l’immagine negativa sia chi denuncia le distorsioni morali del Paese. Invece, una delle ragioni per cui il popolo ebraico non è stato sradicato in migliaia di anni è che nella nazione ebraica da sempre sono stati numerosi i coraggiosi pronti a denunciare le distorsioni sociali e le ingiustizie. Tutti quelli che odiano Breaking the Silence dovrebbero riflettere su una cosa: la forza morale è necessaria per la sopravvivenza di una nazione. La nostra grandezza morale non è una sorta di gioiello da tenere in cassaforte e da brandire con splendore soltanto quando sarà finita la guerra, sarà ripristinata la normalità o ci saranno stati quarant’anni continuati di pace. No. La forza morale, specialmente in tempo di guerra, è urgente tanto quanto i primi soccorsi su un campo di battaglia. Non dovremmo svilire chi desidera sentirsi in pace con se stesso. Tuttavia, forse sarebbe bene fare loro familiarizzare con qualcosa che quasi tutto il mondo sa: che uno dei pochi motivi per i quali gli israeliani possono ancora sentirsi in parte in pace con se stessi e davanti agli altri paesi è proprio che abbiamo organizzazioni quali Breaking the Silence, B’Tselem e Peace Now, che la lotta per raggiungere la giustizia sociale non si ferma mai e che continuiamo ad avere una stampa più o meno libera. Nonostante l’ingiustizia e lo sfruttamento degli svantaggiati, io continuo ad amare Israele. Amo questo Paese anche nei momenti in cui non lo sopporto. Lo amo per la sua lunga tradizione di accesi dibattiti interni e per la sua ricerca della giustizia. Sono molte le persone che si domandano: « Perché non possiamo risolvere le nostre differenze in modo discreto?».
Ebbene, perché i tempi sono cambiati e gli “occhi del mondo” non sono più discreti. Sono finiti i giorni in cui si poteva sussurrare qualcosa in cucina senza che tutti lo sapessero il giorno dopo. Fa bene aprire le ferite appena possibile davanti a tutto il mondo, non solo per le vittime, ma anche per il bene di tutti. Per il bene della società israeliana. Accade qualche volta nella storia che qualcuno qualificato dalla maggior parte della sua gente come un traditore finisca per essere considerato un maestro. È il caso di chi si schierò con il profeta Geremia, che disse ai figli di Gerusalemme: «Non dovete credere che il vostro alleato eterno sia veramente il vostro alleato eterno, perché improvvisamente egli potrebbe diventare uno di cui non ci si può fidare». I contemporanei di Geremia li tacciarono di essere «traditori» e di «sinistra» e le autorità li gettarono in un pozzo. Oggi, tuttavia, il popolo di Israele ricorda con affetto Geremia, non i suoi accusatori. La storia dell’avventura sionista inizia con Benjamin Ze’ev Herzl, il visionario che concepì lo Stato ebraico, l’uomo onorato persino dal movimento di destra Im Tirtzu. Forse scordano che fu proprio Herzl a pensare all’Uganda come alternativa a Israele per ospitare la patria ebraica. David Ben-Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, fu per qualcuno un traditore. Menahem Begin, che si ritirò dal Sinai perché ci fosse pace, fu per i membri del suo movimento un traditore. Shimon Peres e Yitzhak Rabin, che strinsero la mano a Yasser Arafat alla ricerca di un accordo che ponesse fine al conflitto tra Israele e i palestinesi, furono definiti da molti « traditori » .
Da parte sua, anche Anwar el Sadat, che si recò a Gerusalemme, parlò davanti alla Knesset e firmò la pace con Israele, era ed è considerato da milioni di arabi un traditore. Ariel Sharon, i cui bulldozer rasero al suolo gli insediamenti ebraici a Gaza che lui stesso aveva approvato, fu definito anch’egli un traditore. È evidente che i cittadini hanno un debito molto più grande verso chi ha rotto il silenzio che non verso chi ha taciuto. Rompere il silenzio non è necessariamente una questione di schieramento di sinistra o di destra. Al contrario. Anche nella sinistra israeliana continuano a esserci dei silenzi che dovrebbero essere rotti una volta per tutte. Noi ebrei abbiamo una lunga tradizione che ci insegna che tutti quanti hanno il diritto e persino il dovere di censurare il popolo e i suoi leader e chiunque faccia versare sangue innocente. La nostra tradizione ci permette persino di insultare Dio. Ci sono accuse contro Dio fin dai tempi della Bibbia. E dunque? L’Esercito israeliano è il solo a godere d’immunità eterna e assoluta? Non sto dicendo che un giorno la storia vedrà gli attivisti di Breaking the Silence come discendenti dei profeti: forse sì, forse no. Il tempo lo dirà. Quello che invece possiamo affermare ora è che chi oggi lancia pietre discende da chi lanciò pietre contro i profeti di Israele.


Traduzione di Guioma P
arada

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