In direzione ostinata e contraria come avrebbe cantato De André, ci
sono ancora intellettuali e giornalisti che continuano a ritenere il
destino dei palestinesi (e di Israele) una questione centrale del Medio
Oriente e della politica internazionale. Non solo. Come sottolinea
Tommaso Di Francesco nell'introduzione al libro di Michele Giorgio e
Chiara Cruciati Israele, mito e realtà—Il movimento sionista e la Nakba
palestinese 70 anni dopo (Alegre, pp. 223, euro 15), la questione
palestinese misura anche la dimensione della disgregazione europea e
italiana della sinistra che ha, in gran parte, abbandonato il tema per
lasciarlo ai margini di formule auto-assolutorie come «i due stati non
sono più possibili», «il dramma palestinese è marginale rispetto al
resto». Il che non è assolutamente vero: il doppio standard legale e
umanitario applicato ai palestinesi, la violazione che continua da
decenni delle risoluzioni Onu, è al centro di ogni questione
mediorientale, segna anche il destino degli altri arabi, dei curdi,
degli iraniani. Di tutti noi, come cittadini del mondo e di un Paese, il
nostro, quasi mai sovrano e indipendente. Il doppio standard si
moltiplica con sanzioni e embarghi, punendo in realtà non i regimi ma
intere popolazioni. Tranne uno: Israele.
UN'ECCEZIONE giustificazionista che si traduce nella formula del
«diritto dello stato ebraico a difendersi» e nel mantra irrinunciabile
che «Israele è l'unica democrazia della regione», l'unica perché alle
altre possibili non viene lasciata neppure una chance di esistere come
nazioni, Paesi, stati e neppure come cittadini con diritti primari, come
la casa e la terra dove si è nati. A meno che non si pensi, una volta
seminate rovine ovunque, di trovare dall'altra parte, pronti ad
aspettarci, degli allegri boy scout.
AL VECCHIO COLONIALISMO, del resto mai fuori moda e rivisitato con
gli interventi «umanitari» e i raid aerei americani, francesi, inglesi o
russi, se ne accompagna un altro di stampo più «moderno» e adatto
mentalmente ai tempi: h Palestina, inghiottita in questi anni anche
dalla guerra siriana, viene percepita dagli occidentali come un affare
interno a Israele. Affari loro, in poche parole. Una tendenza che non
riguarda soltanto le potenze occidentali ma anche la Russia di Putin che
oggi nella mano tesa al premier Benjamin Netanyahu ne vede un'altra
accarezzare il portafoglio perché Israele offre una sponda per aggirare
le sanzioni imposte a Mosca dopo l'annessione della Crimea.
IL TIRO AL BERSAGLIO di Gaza da parte delle forze israeliane, in
questa ottica, diventa dopo qualche giorno un evento trascurabile, così
come lo spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme e il suo
riconoscimento come capitale dello stato ebraico. È con questo
atteggiamento che viene somministrata dai media un'informazione tossica
che titola «battaglia a Gaza tra israeliani e palestinesi» quando, come
scrive Tommaso Di Francesco nell'introduzione, si è trattato soltanto di
un tragico tiro al piccione. In questa distorsione dei fatti i giornali
italiani non temono concorrenza, persino i quotidiani israeliani
appaiono a volte più obiettivi.
LA SINISTRA E IN GENERALE la politica europea hanno accettato il
fatto compiuto e la stessa Shoah, sottolinea ancora Di Francesco, è
stata usata strumentalmente, scaraventata addosso agli arabi a
giustificazione di una storia in cui non hanno responsabilità. Una volta
il contrasto a questa versione degli eventi si sarebbe chiamata
contro-informazione, oggi si tratta semplicemente di informare così come
fa da anni, tutti i giorni, Michele Giorgio, storico corrispondente in
Medio Oriente de Il manifesto, per molti di noi il primo tra i
giornalisti italiani che si va a leggere la mattina per capire cosa
succede. Ne è la riprova la stima dei colleghi per la sua lucidità,
intatta dopo tanti anni, e la tenacia nel districare il groviglio
mediorientale. In questo libro, come in uno precedente sui 50 anni dalla
guerra del 1967, si è scelto come compagna di viaggio Chiara Cruciati,
che ha legato in maniera indissolubile la sua vita professionale alle
vicende del Medio Oriente. Perché una volta saliti sulla «carovana dei
martiri dell'informazione» non si scende più, come mi disse tanti anni
fa con un sorriso ironico (ma non tanto) un amico palestinese.
IL CUORE DELLA QUESTIONE, a 70 anni dalla nascita nel 1948 dello
stato di Israele e della Nakba, la catastrofe palestinese, è indicato
con chiarezza dello storico israeliano Ilan Pappé in una lunga
intervista sull'idea di Israele. «Il discorso sionista - dice - è
fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione».
L'operazione fondamentale è stata assorbire la Palestina all'interno
della storia europea: dalla Dichiarazione di Balfour sul focolare
ebraico, passando per il piano di partizione del 1947, fino alla
dichiarazione di Trump su Gerusalemme del 6 dicembre 2017, l'Europa e
l'Occidente hanno incasellato la Palestina come una affare interno a
Israele. «In questa visione i palestinesi _ afferma Pappé - in quanto
arabi e musulmani sono visti come migranti non come nativi». Insomma i
palestinesi, secondo questa versione, non riavranno indietro la terra -
Israele intende la pace come accettazione da parte loro dello status quo
- ma neppure hanno diritto a una storia. Eppure questa storia, prima
del sionismo, c'era eccome, anche ben documentata come spiega lo storico
Salim Tamari, docente di Harvard: «A fine Ottocento, la Palestina,
parte dell'Impero ottomano, amministrata in due province autonome (una
con riferimento a Gerusalemme) era composta per l'85% da palestinesi
musulmani e per il 15% da palestinesi cristiani, ebrei e di altre
confessioni religiose». Anzi quella dei palestinesi è una storia che in
un secolo mezzo definisce sempre di più il loro sentimento identitario
arabo e nazionale. Ma oggi a prevalere è la versione sionista degli
eventi con una costate rimozione: nella terra promessa c'era un altro
popolo che viveva lì da secoli. Di fronte a questa semplice e cruda
verità ogni giorno si volta la testa dall'altra parte.
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