AHED, TAGHREED E LE ALTRE – di Paola Caridi

 

AHED, TAGHREED E LE ALTRE – di Paola Caridi  

Non fosse stato per Ahed Tamimi, l’opinione pubblica europea non avrebbe notato – nel panorama palestinese – la presenza delle donne. Non fosse stato per la potenza delle immagini in cui una ragazza di 17 anni viene ripresa dalle telecamere lo scorso dicembre, nel piccolo paese cisgiordano in cui vive, mentre affronta un soldato israeliano e lo schiaffeggia, il pubblico generalista non si sarebbe ricordato dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Per inciso, Amnesty International chiede il rilascio di Ahed Tamimi, che “proprio a causa di questo suo impegno politico è stata condannata a otto mesi di carcere e a una multa di 5000 shekel (1150 euro)”, considerando “sproporzionata” la punizione.

Non fosse stato, anche, per i lunghi capelli biondi di Ahed Tamimi, il suo incarnato bianco, i suoi occhi azzurri, la comunicazione sulla questione israelo-palestinese non avrebbe trovato un ostacolo inatteso. L’ostacolo determinato dalla sorpresa. E cioè, in questo caso, la rottura dello stereotipo estetico, sottolineato anche da uno dei commentatori conservatori più noti di Israele, Ben Dror Yemini. Ahed Tamimi “ispira simpatia perché sembra la figlia della famiglia di bianchi della porta accanto”, aveva scritto Yemini nel dicembre del 2017 sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot.

Non fosse stato per Ahed Tamini, che è ancora in carcere per aver schiaffeggiato un soldato israeliano, non avremmo scoperchiato quello che, in Palestina, è evidente da tempo: una presenza diversa delle donne in questa nuova fase delle proteste contro l’occupazione israeliana. Persino le manifestazioni del venerdì lunga la frontiera di Gaza –  le “grandi marce del ritorno”, come sono state chiamate – hanno visto una presenza di donne sorprendente, in una dimensione così conservatrice come quella della Striscia. Anche in questo caso, una presenza immortalata da una foto da breaking news, scattata da uno dei fotoreporter della Reuters: ritrae una ragazza, Taghreed al Barawi, che lancia una pietra. Un’immagine diversa da quella di Ahed Tamimi per un differente modo di vestire: di Taghreed al Barawi non si vedono i capelli, coperti da un velo che si allunga sul viso per proteggersi dai lacrimogeni. Il corpo della ragazza di Gaza, poi, è coperto da un jilbab, da un lungo soprabito che non le impedisce, però, di partecipare alla protesta e avvicinarsi alla frontiera con Israele, rischiando di essere colpita dai tiratori scelti israeliani.

Sono foto, certo, e nelle foto sono ritratte giovani donne che, nel loro piccolo, diventano icone di un pezzo di storia. Dietro ai loro visi e alla loro protesta, c’è molto altro. In gran parte nascosto. C’è una situazione molto difficile, per le donne, a causa dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi che dura da oltre mezzo secolo. Le vittime, i feriti, gli invalidi, i detenuti sono in massima parte uomini, in questa storia. Lo dicono tutte le statistiche. Statistiche che parlano, però, molto poco delle conseguenze che il conflitto ha su chi resta. Donne divenute vedove oppure orfane a causa del conflitto, donne costrette a gestire una famiglia a cui manca – da un momento all’altro – chi porta un seppur magro stipendio a casa. Donne che perdono figli, figli spesso giovanissimi, negli scontri. L’occupazione costringe a una condizione estremamente precaria perché le questioni relative alla sicurezza confinano le donne, più degli uomini, a una dimensione chiusa, a una mobilità ridotta.

È, questa, una situazione ahimè diffusa nelle aree di conflitto. Così come sono diffusi i danni collaterali, quelli che riguardano gli equilibri della propria comunità. Alla dimensione securitaria israeliana corrisponde una dimensione simile nelle aree controllate dall’Autorità Palestinese di Ramallah o, per quanto riguarda Gaza, da Hamas, Nel mezzo, le donne sono costrette a vivere in comunità che hanno irrigidito tradizioni sociali, recuperando modalità di gestione della società che si rifanno a periodi lontani nel tempo. È il patriarcato a uscirne vincente, in storie di questo genere. Come scrive Nicola Pratt, studiosa che ha scritto molto su diritti umani e società civile in Medio Oriente, “tra la violenza dell’occupante e la resistenza dell’occupato, il corpo di una donna palestinese non è più il suo, ma diviene il simbolo di autenticità culturale, il simbolo della nazione palestinese. Così come in altri conflitti – dalla guerra civile in ex Jugoslavia al genocidio in Ruanda, sino alla guerra tra le truppe statunitensi e le forze insurrezionali irachene – i corpi delle donne sono il campo di battaglia”.

Nicola Pratt tocca, quindi, il nodo del sistema patriarcale, un sistema che l’occupazione israeliana non ha fatto altro, negli ultimi decenni, che irrigidire. “Come simboli della nazione che debbono essere protetti dagli occupanti, le donne palestinesi hanno il compito di salvaguardare il proprio ‘onore’, sia in relazione ai loro comportamenti improntati alla modestia, ma più in generale alla necessità di conformarsi al sistema patriarcale”.

La donna palestinese è in sostanza imbrigliata in una condizione di ‘vittima-doppia’. Non è, appunto, un caso isolato. Semmai, una costante nelle zone di conflitto e crisi, su cui si riflette da decenni negli studi di genere. Anche quando gli studi di genere riguardano la regione araba. Ne hanno scritto estesamente le studiose riunite nel gruppo dello Arab Human Development Report che pubblicò nel 2005 un rapporto importante, Towards the Rise of Women in the Arab World.Era un gruppo guidato, non a caso, da una delle più famose studiose di genere nel mondo arabo, Islah Jad, palestinese, elemento portante dello Institute of Women’s Studies dell’università di Birzeit a Ramallah. Il programma di studi di genere a Birzeit è, in questo contesto, un centro di riflessione che sulla questione del patriarcato e sul ruolo delle donne nella politica palestinese (dalla prima intifada a oggi, soprattutto) ha prodotto studi, statistiche, rapporti di altissima qualità. Dimostrando, dunque, che al peggioramento delle condizioni in cui si trovano le donne palestinesi corrisponde una reazione culturale di tutto rispetto.

Dietro gli occhi di Ahed Tamimi e di Taghreed al Barawi, immortalati da uno scatto fotografico, c’è molto altro, una complessità ancora una volta nascosta, che è necessario conoscere. Non solo per comprendere ciò che si muove nella società palestinese, frammentata dal punto di vista geografico e politico. Ma anche per rompere quel rigido velo tessuto in Occidente – orientalista e stereotipato – che incasella le donne arabe in storie che non sono le loro.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 2  dell’anno 4° della rivista Voci, la rivista della Circoscrizione Sicilia di Amnesty International.



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