Noemi Valentini : La nonviolenza in Palestina esiste, ed è più efficace della lotta armata intervista ad Hafez Hurein



Trenta giorni, quarantaquattro vite spezzate.
È il bilancio più recente dell’inestinguibile conflitto tra Palestina ed Israele, che nelle ultime settimane è prepotentemente tornato ad occupare le prime pagine di tutto il mondo a causa della violenza riversata dall’esercito israeliano contro i civili palestinesi impegnati nella Marcia del ritorno a Gaza.
Le immagini che arrivano dalla Striscia ci catapultano in uno scenario apocalittico, tra le decine di morti e le migliaia di feriti avvolti dal fumo denso e nero dei roghi a ppiccati dai manifestanti per confondere i cecchini. Ciò che più di tutto sta spiazzando la stampa internazionale, però, è la quasi totale assenza di violenza da parte della fazione araba, che alzando in manifestazione cartelli raffiguranti il volto di Martin Luther King ha consapevolmente adottato una strategia pacifica, rivendicata dallo stesso gruppo armato Hamas.
Si tratta in verità di una modalità sempre più utilizzata nelle rivendicazioni palestinesi (basti pensare alla marcia delle donne dell’estate 2017), che ha radici ancorate nelle profondità della storia di questo popolo e strette intorno ad At Tuwani, un piccolo villaggio posato sulle colline intorno ad Hebron, nel sud della Cisgiordania.
È la storia di un popolo che resiste, di un movimento rivoluzionario e culturale, una storia di lotta ragionata e disarmante resilienza, ed è anche la storia di un uomo, Hafez Hureini, leader del movimento popolare non violento delle Colline a Sud di Hebron.
Nati e cresciuti sulle crepe di una pace solo apparente, dove lo scorrere del sangue sembra l’unica lingua comune, gli abitanti di At Tuwani hanno scelto di cambiare tattica, rispondendo a prevaricazioni e maltrattamenti non con altrettanta violenza ma – invece – con la resistenza pacifica. Questo perché, banalmente, “è molto più efficace” della lotta armata o intifada, come ha raccontato Hafez a TPI.
Le loro azioni non sono solo passive, ma decise e calcolate, in modo da non scivolare mai nel baratro della brutalità fisica. A questa rispondono sul piano legale, appellandosi alle istituzioni israeliane, e su quello mediatico, documentando le violazioni dei diritti umani e delle norme internazionali, partendo dal mancato rispetto dei confini tra i due stati. La questione mediorientale, polverosa e ruvida come la terra su cui cresce, è infatti – prima di tutto – una questione geografica. I due popoli si contendono rettangoli di terra: è una guerra centimetro per centimetro, come in una partita di rugby, in cui ogni metro conquistato è un metro più vicino alla meta, e non si può cedere né indietreggiare di un passo.
Tutto si basa su un concordato iniziale: i cosiddetti accordi di Oslo, che nel 1993 (e poi nel ’95) suddivisero la West Bank (la “sponda occidentale”) in tre aree, secondo un piano transitorio che non sarebbe dovuto durare più di cinque anni ma che di fatto è in vigore ancora oggi. Secondo tale ripartizione, l’area A (la più piccola e densamente popolata, limitata alle grandi città) è sotto il controllo palestinese sia sul piano militare che su quello civile, l’area B risponde civilmente alla Palestina e militarmente ad Israele, mentre nei territori dell’area C (costellata da piccoli villaggi, tra cui anche At Tuwani, pur sempre palestinesi) il controllo è tutto in mano ad Israele.
Questo significa che, per costruire qualsiasi edificio, chi vive in area C deve ottenere l’autorizzazione delle autorità israeliane, rilasciata molto raramente, per cui ogni casa costruita dai palestinesi si trova in realtà sotto la costante minaccia della demolizione, che avviene su base regolare.
“Distruggono e confiscano, lasciano le famiglie senza casa, senza niente, e la maggior parte dei villaggi è a rischio demolizione. Le persone del villaggio di Susiya per esempio aspettano ogni giorno che le forze militari arrivino a buttar giù le loro case”, racconta Hafez.
Gli accordi di Oslo si basavano sulla “Green Line”, il confine stabilito con l’armistizio tra i due paesi nel 1949 e riconosciuto (di fatto) dalle Nazioni Unite quando queste contestarono la legittimità dell’annessione ad Israele dei territori conquistati con la guerra dei sei giorni del 1967, chiedendo di ripristinare la situazione precedente.
Nonostante i trattati internazionali, però, lo stato israeliano continua a rifiutare i confini ed ha avviato una politica espansionista e colonizzatrice, attraverso la costruzione in territorio palestinese di insediamenti cui è seguita l’ulteriore spontanea creazione di avamposti da parte di militanti radicali, considerati illegali anche da Israele stesso ma ciclicamente “legalizzati” attraverso condoni.
Questa pratica è considerata illegittima dalla comunità internazionale, che l’ha condannata a più riprese tramite diverse risoluzioni Onu, l’ultima a fine 2016.
Come mostra una dettagliatissima mappa della OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) sono ben 587mila gli israeliani che vivono negli insediamenti o negli avamposti in contravvenzione alle norme internazionali.
Il governo rivendica però la piena e totale appartenenza delle stesse allo stato d’Israele, chiamandole non Cisgiordania (come previsto dagli accordi di Oslo) ma con il nome – biblico, ebraico – di Giudea e Samaria, per sottolinearne il legame storico e spirituale con Israele.
Convinzione ostentata al punto che, nel Natale 2016, l’ambasciatore israeliano ha deciso di sfidare la comunità internazionale inviando a Barack Obama un pacco regalo “made in Israel” traboccante di prodotti provenienti dalle colonie, a breve distanza dall’approvazione da parte dell’Unione europea di una normativa che impone di differenziare “Israele” e “colonie” sulle etichette dei beni di consumo.

Diritti piegati

L’occupazione naturalmente non resta una mera questione di definizioni, ma porta con sé un pesante bagaglio di risvolti pratici, consistenti in ripetute e spesso impunite violazioni dei diritti umani ai danni dei palestinesi che abitano i territori contesi.
Non potendo ufficialmente espropriare l’area per via del mancato supporto della comunità internazionale, i coloni e gli abitanti degli avamposti cercano di portare i palestinesi a lasciarla spontaneamente, attraverso atteggiamenti violenti e persecutori, assecondati da un’interpretazione deviata ed utilitaristica delle norme militari: minacce armate, pestaggi, irruzioni dei villaggi e pietre scagliate contro chiunque passi vicino alle case israeliane, bambini compresi.
L’ong Defense for Children International parla di 41 bambini colpiti dalla violenza dei coloni nel 2016, accanto a 429 minori detenuti dalle forze armate israeliane tra il 2012 e il 2015.
“Lo scopo è rendere la vita dei palestinesi un inferno, utilizzando queste regole aggressive e queste politiche per spingerli ad andarsene”, dice Hafez. “At Tuwani è considerato il principale varco per entrare ed uscire dall’area, quindi spesso abbiamo i posti blocco, nei quali chiunque può essere fermato per ore, picchiato, tormentato e arrestato”.
L’arresto, che può toccare anche chiunque entri in un territorio che Israele rivendica come proprio, comporta violenze di vario genere, l’immediato trasporto in una base militare e il rilascio solo su cauzione, modalità con le quali l’esercito incoraggia di fatto la strategia dei coloni, contribuendo a rendere la serenità un miraggio per i palestinesi. “La regola è usare la violenza contro i palestinesi, tutti: uomini, donne, giovani, vecchi, bambini, non gli interessa. Non gli importa di attaccare anche anziani e bambini. I coloni hanno usato violenza contro di me, contro mia madre, i miei figli, tutto”, racconta Hafez, al cui figlio Hussein hanno spezzato una gamba in un pestaggio a fine marzo 2018.
“Tutto questo si aggiunge alla distruzione delle proprietà dei palestinesi”, i quali, se residenti a sud di Hebron, sono principalmente contadini o pastori.
I coloni “tagliano gli alberi, avvelenano le pecore dei palestinesi, e ogni tanto usano i cani per ucciderle o sparano ai pastori e alle pecore. Tutti i loro crimini sono coperti, perché tutta l’area è sotto il pieno controllo militare dell’esercito israeliano. C’è piena cooperazione e collaborazione tra coloni e forze militari”.

La resistenza nonviolenta

Contro simili soprusi tipicamente la risposta immediata è quella violenta, armata, intrapresa da tanti tra gli oppressi della Palestina. Nei primi anni Duemila, Hafez si accorse però che in tanti sceglievano invece una via differente, una ribellione consistente in principio nel semplice ed estenuante rimanere in quei territori tormentati.
Decise allora di viaggiare e mettere in collegamento i tanti movimenti sorti spontaneamente, unendoli nel 2009 nel PSCC (Popular Struggle Coordination Committee) al fine di condividere azioni e sforzi, canalizzare l’attenzione mediatica e diffondere il messaggio che la resistenza pacifica può essere una risposta anche in Palestina.
“Stiamo facendo del nostro meglio per estendere quest’esperienza a tutte le comunità palestinesi”, racconta Hafez, che per anni ha percorso la Palestina cercando di unificare le varie realtà sotto la bandiera della resistenza pacifica.
“All’inizio era difficile parlare di nonviolenza, ma per noi era chiaro che lo scopo dell’occupazione era quello di spingerci con la forza ad usare la violenza, perciòsapevamo di non doverlo fare. Quindi dovevamo pensare ad altre modalità. Allora non sapevamo quale fosse il vero nome di quella cosa, della nonviolenza”. Poco a poco però il gruppo ha incontrato il supporto di varie organizzazioni, stringendo legami con associazioni pacifiste internazionali ed israeliane come i Ta’ayush – parola araba che significa “vivere insieme” – un gruppo di volontari israeliani che ogni settimana si reca nei territori palestinesi per supportare le comunità che portano avanti una resistenza nonviolenta.
I palestinesi che aderivano all’iniziativa hanno cominciato a compiere azioni più ambiziose e strutturate, seguendo le vie legali e organizzando insieme manifestazioni e proteste pacifiche, rifiutandosi di pagare le tasse ad Israele e restando inermi di fronte a violenze e arresti per riempire le prigioni israeliane fino all’orlo, piantando ulivi nei territori degli insediamenti illegali ed incatenandosi agli stessi per impedirne lo sradicamento, sdraiandosi di fronte ai bulldozer arrivati per demolire le case e, sempre, continuando ad abitare le loro terre. “Siamo i primi palestinesi ad avere resistito contro il muro”, spiega Hafez, riferendosi alla grande barriera di separazione costruita da Israele a partire dai primi anni Duemila per separare fisicamente i territori e proteggere le colonie dalla seconda intifada.
Il muro si allontanava illegalmente dai confini prestabiliti con la Green Line, mangiandosi pezzi di terra palestinese abitati da circa 150 comunità.
“Abbiamo manifestato per 18-19 mesi con manifestazioni settimanali, un sacco di persone sono state picchiate, e abbiamo pagato un prezzo molto alto. Come risultato c’è stata una decisione della Corte Suprema israeliana che diceva che il muro era illegale. Quindi abbiamo continuato a resistere ed organizzare azioni, e abbiamo continuato a causare loro grandi grandi problemi finché non hanno tirato giù il muro”.
La nonviolenza non è solo una scelta morale, è una scelta strategica. Il movimento delle Colline a Sud di Hebron la preferisce perché più efficace di quella armata, ma per essere tale non può essere disorganizzata, non può essere individuale, e va prima di tutto mediatizzata: se porta l’opinione pubblica globale a schierarsi contro le azioni di Israele, questo può perdere alleati commerciali e strategici, e scegliere quindi di modificare il proprio comportamento nei confronti dei palestinesi per riconquistarsi il favore internazionale.
Da qui l’importanza della presenza nel territorio di progetti come Operazione Colomba, che catalizzano l’attenzione mediatica per via della presenza di cittadini europei. Questo progetto, che costituisce il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, è attualmente attivo in Palestina, Colombia, Libano ed Albania, dove si rapporta con entrambe le fazioni contrapposte, ponendosi come parte terza del dialogo al fine di agevolare una risoluzione nonviolenta del conflitto.
Ad At Tuwani i volontari di Operazione Colomba vanno a vivere nelle case dei palestinesi, condividendo con loro la quotidianità mentre forniscono insieme ad altre associazioni una scorta non armata e documentano le numerosissime violazioni a cui assistono.
Un esempio dell’efficacia di questi progetti è rappresentato dall’evoluzione della situazione riguardante i bambini che, dovendo attraversare un percorso che costeggia un insediamento israeliano per poter raggiungere la scuola, venivano puntualmente bersagliati dalla violenza dei coloni.
Solo quando una volontaria internazionale che scortava i bambini venne colpita da una pietra Israele fu obbligato dalla pressione dell’opinione pubblica internazionale a prendere provvedimenti, e fornì loro una scorta militare.
Ad oggi la scorta tende però a presentarsi spesso in ritardo, impedendo di fatto ai bambini di arrivare a lezione puntuali. I volontari di Operazione Colomba hanno quindi iniziato a tenere il conto delle ore di scuola perse dai bambini in questo modo, per portare il problema all’attenzione collettiva.
“Non è facile continuare a resistere alle ingiustizie in maniera non violenta, i coloni e le forze militari non hanno mai smesso di utilizzare la violenza contro di noi, e di recente è diventato chiaro quello che stiamo facendo, e che la nostra resistenza è completamente non violenta”, racconta Hafez.
Le forze dell’occupazione israeliana hanno infatti intrapreso una strategia fortemente provocatoria, per spingere i palestinesi a reagire con la forza: “fanno del loro meglio per distruggere questa scelta, per fermarla, perché funziona meglio della resistenza armata, meglio di qualsiasi cosa”.
Ma secondo Hafez proseguire determinati per questa via, e renderla visibile, è importante ora più che mai, perché “Israele dice che non stiamo combattendo per la nostra libertà e per i nostri diritti, e ci descrive come criminali”.
Dimostrando il contrario con la nonviolenza, invece, i palestinesi possono consegnare all’opinione pubblica il potere di neutralizzare la violenza di militari e coloni.
“Non dimenticate mai che stiamo combattendo contro un’occupazione, e secondo il diritto internazionale sarebbe un nostro diritto quello di difenderci. In tutto il mondo trovereste violenza e non violenza. Lo scopo comune a tutti è fermare l’occupazione, ma io, personalmente, scelgo la resistenza non violenta. Per quanto riguarda gli altri, è una loro scelta, ma noi speriamo che cambino idea e seguano la strada nonviolenta, perché è molto più efficace”, dice Hafez.
Risparmiare sofferenze e vite umane non è allora un’idea bonaria e confortante, un’utopia in cui cullarsi seduti  comodamente in poltrona, ma una concretezza dura e vincente, l’unica speranza di poter spezzare una spirale di violenza di cui non si intravede ancora la fine. “Ciò di cui abbiamo bisogno dagli europei e dagli americani è che si schierino con noi, e che mostrino la realtà di cosa sta succedendo qui”, conclude Hafez.
“Sappiamo che quasi tutti i governi in Europa e negli Stati Uniti in qualche modo supportano Israele, ma chi ha votato per loro? Le persone normali! Quindi abbiamo bisogno che quelle persone votino, ed eleggano persone pronte a battersi per i diritti umani

La nonviolenza in Palestina esiste, ed è più efficace della lotta armata


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