Jeremy Corbyn :La diplomazia, non i bombardamenti, sono la strada per porre fine all’agonia della Siria




16 aprile 2018
Sono tempi critici. Dopo agli attacchi missilistici contro la Siria, ora è il momento si una potente spinta verso la pace. Domenica, l’accettazione  gioiosa  da parte di Boris Johnson del fatto che il conflitto ora continuerà secondo il suo corso attuale e che i negoziati di pace sarebbero un “extra”, vuol dire abdicare in modo spregiudicato alla responsabilità e alla moralità.
Questo conflitto devastante è già costato più di 500.000 vite umane e ha portato al fatto che 5 milioni di rifugiati siano stati costretti a fuggire dalla Siria e che 6 milioni siano sfollati all’interno del paese. Dobbiamo mettere al centro della scena dei negoziati per un accordo politico, e non scivolare in un altro ciclo di reazione e contro-reazione militare.
Il protratto intervento militare esterno in Siria – dai finanziamenti e forniture di armi ai bombardamenti e ai militari in campo – non ha minimamente aiutato. La Siria è diventata il teatro dell’azione militare da parte delle potenze internazionali; tra questi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Francia, Turchia,  Iran, Arabia Saudita, Israele, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
L’attacco di sabato ai siti che si pensava fossero legati al potenziale delle armi chimiche della Siria, è stato sia sbagliato che malriuscito. E’ stato o puramente simbolico – una demolizione di quelli che sembrano edifici vuoti, cosa che si è già dimostrata essere del tutto inefficace come deterrente – o ha precorso un’azione militare più ampia. Questo farebbe rischiare un’escalation della guerra e del bilancio delle vittime e il pericolo dello scontro diretto tra Stati Uniti e Russia. Nessuna delle due probabilità offre una fine della guerra e delle sofferenze , o nessuna prospettiva di salvare delle vite, ma invece il contrario. L’intensificazione dell’azione militare porterà semplicemente ad altre morti e ad altri rifugiati.
E’ fuori discussione chiudere un occhio sull’uso delle armi chimiche. Il loro impiego costituisce un crimine e i responsabili di questo devono essere denunciati. Si supponeva che il governo di Assad avesse rinunciato alle sue scorte di munizioni chimiche (ma non al cloro) in base all’accordo del 2013 appoggiato dall’ONU e  centinaia di queste sono state distrutte con la supervisione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, della Russia e degli Stati Uniti.
Contrariamente a quanto dichiarato, l’accordo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è stato garantito allora, e di nuovo nel 2015 e nel 2016, per un regime dell’ONU di ispezioni indipendenti delle armi chimiche. Questo può e deve essere ristabilito, come entrambe le parti nel consiglio di sicurezza stanno ora proponendo.
Agli ispettori deve essere dato completo accesso per radunare le prove e anche poteri aggiuntivi. La Russia  deve rispettare  i suoi impegni del 2013 e deve fare pressione sul governo di Assad per collaborare alle indagini per l’oltraggio a Douma.
Lo stesso vale per i gruppi armati di opposizione alcuni appoggiati dai Sauditi o dall’Occidente, che sono stati anche loro coinvolti nell’uso delle armi chimiche. Si deve fare pressione anche su coloro che saranno ritenuti responsabili, ricorrendo a sanzioni, embarghi e, se necessario, alla corte penale internazionale.
La totale responsabilità dipenderà da una fine del conflitto. Ora, però, c’è moltissimo da fare, senza gettare benzina sul fuoco. C’è chi è scettico circa la diplomazia multilaterale. E’, però, necessario insistere sulla legalità e su una sanzione dell’ONU per qualsiasi ulteriore azione militare. Non possiamo accettare che una “nuova guerra fredda” sia inevitabile, come ha avvertito il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres. Anche uno spostamento dalla retorica dello scontro senza fine con la Russia
Potrebbe servire ad abbassare la temperatura e a rendere più probabile un consenso dell’ONU a un’azione multilaterale per porre fine all’agonia della Siria.
L’azione militare del weekend è stata legalmente discutibile. La giustificazione del governo che fa molto affidamento sulla dottrina fortemente contestata dell’intervento umanitario, non rispetta  neanche i propri parametri. Senza l’autorità dell’ONU si è trattato di nuovo della questione dei governi statunitense e britannico che si sono attribuiti a loro stessi l’autorità che non possiedono, di agire unilateralmente.
Il fatto che il primo ministro abbia ordinato gli attacchi senza cercare l’autorizzazione dal parlamento sottolinea soltanto la debolezza di un governo che in realtà stava semplicemente aspettando l’autorizzazione da un presidente degli Stati Uniti bellicoso e instabile. Ecco perché facciamo pressione  affinché il parlamento abbia l’ultima parola circa l’azione militare pianificata in futuro in un nuovo atto di guerra dei poteri.
Ulteriori azioni militari sarebbero imprudenti. Anche di più che nel caso dei disastrosi interventi in Iraq, in Libia e in Afghanistan, la guerra siriana è carica del pericolo di un conflitto più ampio, che inizia con la Russia e poi rischia di trascinare dentro anche Turchia, Iran, Israele e altri paesi.
E non viene offerto  nemmeno un piano politico previsto. La Libia offre l’esempio più recente e pericoloso di un’operazione militare fatta partire senza pensare alle conseguenze politiche. Nel frattempo, la campagna di bombardamenti saudita in Yemen, appoggiata dal Regno Unito, è un disastro umanitario.
Il governo britannico è necessario che agisca come influenza restrittiva in questa crisi, non come un sostenitore. È una buona notizia che adesso il consiglio di sicurezza dell’ONU discuterà sia un nuovo regime d’ispezioni delle armi che un rilancio dei colloqui di pace bloccati. Certe discussioni devono essere condotte con l’obiettivo di un accordo, non di segnare punti con una grossa potenza.
Dobbiamo rimuovere la piaga delle armi chimiche, ma anche usare la nostra influenza per porre fine alla piaga ancora più grande della guerra siriana. Non potrebbe essere più urgente una soluzione diplomatica che permetta al paese di ricostruirsi, ai rifugiati siano di tornare in patria e di arrivare a un accordo politico inclusivo che permetta ai Siriani di decidere sul proprio futuro.
Tutto questo, e non una nuova campagna di bombardamenti, è quello che il popolo britannico vuole dal loro governo. Ora è il momento di una leadership morale e politica, non di reazioni militari impulsive.

Nella foto: degli uomini caricano un tappeto e un materasso davanti a degli edifici danneggiati nella città di Douma.
Jeremy Corbyn è il  the leader  del Partito Laburista 


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