A
mira Hass
Gli
israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da
meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro
dimostranti disarmati.
Nella Striscia di Gaza Israele mostra il
peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire
la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua
politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania,
inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di
rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967
o le sue aggressioni a civili in Libano.
Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua
abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i
funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del
loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e
criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.
C’è spazio solo per quattro riferimenti.
I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione
di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia,
Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla
nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre
coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti
documentati.
Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA
[agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni
Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di
Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a
radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti
palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140
rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli
scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette
abitanti del luogo ed un egiziano.
I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel
dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle
strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le
mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto
tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark
Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il
suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei
corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio
2010).
Pochi mesi dopo l’occupazione della
Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er
scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di
Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha
deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo
compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la
gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo
israeliano.”
“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala
dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha
aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina
verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.
“In uno dei loro incontri, Eshkol ha
chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“,
scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di
rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia
sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il
problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si
rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web
“Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).
Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare
di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di
Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni
all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di
esportazione.
I funzionari dell’ufficio del
Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano
che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero
della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie
perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero
la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari
pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni
come un gesto umanitario.
Negli attacchi a Gaza a partire dal
2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato
in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente
della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le
famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano
anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche
per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per
chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.
In altri termini, gli israeliani hanno
gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti
storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente
giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori
siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena
su manifestanti in fuga.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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