Gideon Levy, Alex Levac |
Le autorità
israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille
palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore
di un’aggressione col coltello.
Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una
punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un
arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente
tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira
questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di
collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a
causa del quale Israele sta punendo un’intera città.
Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud
delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio
palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani]
di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed
altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il
lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in
seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione
Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine
di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di
identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele,
dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano
fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.
Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu
Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella
città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu
arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla
procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla
famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne
revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro
impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.
Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele
improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un
divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza
preavviso né spiegazione.
Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli
attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno
precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo
gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a
migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora
condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa
dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di
loro non lo conosce nemmeno.
Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in
grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per
quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli
assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno
abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui
residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al
momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000
ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.
Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la
loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un
ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo,
qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per
esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla
politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una
moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i
volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso
orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui
ora si nega questa possibilità.
Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il
lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o
Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa,
arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro
permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni
sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e
nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare.
Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone
che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in
Israele a causa del blocco “Abu Aram”.
Qui useremo solo il loro nome, perché
hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni,
padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers
di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di
infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della
famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato
per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte
fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato
rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è
stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.
Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al
lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre,
quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando
al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “
Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei
mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non
assumete nessuno con il cognome proibito.
I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi
siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno
nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti
sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono
stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a
qualcosa.
Abitualmente i permessi di lavoro
devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido
fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14
febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le
carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò;
magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per
lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne
che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”
Gli uomini sono andati negli uffici
dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei
territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di
Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed
alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure
ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è
preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.
Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51
anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È
davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque
figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11
anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare
nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino
e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia
moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità
israeliane).”
Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D.
Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva
arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti
qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare
nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a
Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha
lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per
comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per
comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri
dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia
palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.
Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede
locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri
nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è
diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin.
I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui,
per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato
niente: il numero di carta di identità era lo stesso.
Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti
che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una
manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere.
L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la
possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”
Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu
sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si
definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per
cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni.
Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza
tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi
sono vuoti, dice.
“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il
livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore
della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice
Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione,
sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano,
ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la
pace.”
Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di
Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu
Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a
Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come
conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono
stati immediatamente sospesi.”
A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città.
Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero
registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.
Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno
trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un
bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in
seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.
Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”
“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”
Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.
Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per
dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta
hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio,
mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito
grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti
israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli
uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del
fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada
principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina
colonia di Carmel per chiedere aiuto.
(Traduzione di Cristiana Cavagna
Commenti
Posta un commento