Nadia Hijab : Per ottenere uno Stato, i palestinesi devono lavorare anche per i due Stati.
7 febbraio 2018, Al Shabaka
In
seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da
parte del presidente USA Donald Trump, e rafforzato dalla promessa del
vice presidente Mike Pence di spostarvi l’ambasciata USA prima della
fine del 2019, c’è stata una raffica di articoli che hanno sostenuto
l’imminente spostamento della strategia palestinese verso la soluzione
dello Stato unico con pari diritti. Sia i negoziatori palestinesi
direttamente coinvolti nel moribondo processo di pace di Oslo che
palestinesi che fin da allora hanno avuto poche speranze in Oslo hanno
dichiarato che è tempo di modificare la lotta. Nel contempo Israele ha
continuato ad espandere le colonie, reprimere le proteste e pianificare
l’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania.
La
soluzione dei due Stati è davvero destinata al fallimento ed è tempo di
passare ad una lotta per uno Stato unico? Questo commento sostiene che
entrambi gli esiti statali possono essere messi in atto per ottenere le
aspirazioni ed i diritti dei palestinesi, e che, oltretutto, soddisfare i
diritti dei palestinesi richiede alcune delle risorse di potere
associate ad un sistema statale. Invita inoltre a dedicare tempo ed
energie per chiarire gli obiettivi palestinesi e per comprendere perché
non sono ancora stati raggiunti, e in seguito concentrarsi sugli
elementi di forza necessari per raggiungerli. L’ultima parte discute nel
dettaglio uno di questi elementi di forza, quello della narrazione
palestinese, e chiede una ridefinizione di questa narrazione, compresa
quella relativa al BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). 1
Obiettivi palestinesi negli esiti di uno Stato unico e dei due Stati
L’obiettivo
della lotta palestinese continua ad essere espresso in termini di
strutture statuali. Anche nei termini del raggiungimento dei diritti
palestinesi, cosa otterrebbe un esito politico dello Stato unico che non
otterrebbero i due Stati? È il caso di esaminare brevemente entrambi i
risultati. La prospettiva di una soluzione dello Stato unico, come
quella stabilita dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina
(OLP) nel 1968 è sempre stata più convincente per i palestinesi di
quella dei due Stati. Uno Stato unico è strettamente legato al diritto
al ritorno dei rifugiati alle proprie case e terre.
Con
uno Stato unico i palestinesi avrebbero esercitato il proprio diritto
all’autodeterminazione ritornando e vivendo su tutta la terra che era
stata Palestina, accanto agli ebrei che vi vivono, con gli stessi
diritti per tutti. Mentre la carta dell’OLP del 1968 parlava degli ebrei
che abitavano in Palestina prima della conquista sionista che ha
determinato la creazione di Israele, gli attuali sostenitori palestinesi
della soluzione di uno Stato unico riconoscono che debba comprendere
tutti i suoi abitanti.
Riguardo
alla soluzione dei due Stati, è importante distinguere tra la visione
espressa nel 1988, quando il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) la
adottò, e la parodia di giustizia monca, economicamente e politicamente
bloccata istituita dagli accordi di Oslo che iniziarono ad essere
firmati nel 1993. Quando venne adottata nel 1988, la soluzione dei due
Stati era vista come un riconoscimento pragmatico, realizzabile della
realtà. I palestinesi avrebbero esercitato il diritto
all’autodeterminazione attraverso uno Stato sovrano che avrebbe
garantito i diritti dei suoi cittadini. Un simile Stato avrebbe
consentito alla Palestina di unirsi alla comunità delle Nazioni. Inoltre
la risoluzione del CNP sosteneva le risoluzioni ONU relative ai diritti
dei rifugiati palestinesi. E la lotta per i due Stati non significa
abbandonare la lotta vitale per l’uguaglianza dei cittadini palestinesi
di Israele.
Fin
dall’inizio Oslo ha destinato alla rovina un progetto di Stato basato
sui diritti. Da parte palestinese l’accettazione degli accordi incluse
un implicito riconoscimento che i diritti dei rifugiati palestinesi
sarebbero stati gravemente limitati, sacrificando quindi un diritto
fondamentale dei palestinesi. Da parte israeliana non c’è mai stata
nessuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato
palestinese sovrano accanto ad Israele. Yitzhak Rabin, sbandierato come
un grande pacificatore, mise in chiaro poco dopo il primo accordo di
Oslo che egli intendeva garantire che i palestinesi non avrebbero avuto
nient’altro che un’entità che fosse “meno di uno Stato”, con i confini
di sicurezza di Israele nella valle del Giordano. Queste posizioni
vennero mantenute nel corso degli anni di negoziati. Le posizioni
israeliane si sono notevolmente indurite da allora: più di recente il
comitato centrale del Likud ha votato all’unanimità per chiedere ai
dirigenti del partito di annettere la Cisgiordania.
Se
la soluzione dei due Stati fosse rimasta all’interno del quadro
originario, avrebbe potuto soddisfare i diritti dei palestinesi
all’autodeterminazione ed al ritorno, come lo avrebbe fatto la soluzione
dello Stato unico, se i palestinesi fossero stati in grado di
costruirsi un potere sufficiente a garantire che Israele avrebbe
rispettato il diritto al ritorno ed uguali diritti in uno Stato unico,
il diritto al ritorno e la sovranità in due Stati.
Oggi
la realtà è che il popolo palestinese non ha il potere di ottenere
nessuno dei due risultati nel futuro prevedibile e di imporre ad Israele
o alla comunità internazionale il riconoscimento e la messa in pratica
dei suoi diritti. Infatti la dirigenza palestinese, convinta che Oslo
stesse portando a uno Stato palestinese, lasciò disperdersi i punti di
forza che aveva accumulato negli anni ’70 e ’80, compresi un vivace
movimento di solidarietà e forti legami con i Paesi del Sud, l’Unione
Sovietica e la Cina.
Il
presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non ha dichiarato la fine della
soluzione dei due Stati e chiaramente spera che gli europei
interverranno ora che egli si è, forse temporaneamente, allontanato
dagli USA. Tuttavia chiedere agli Stati europei di fungere da mediatori
non farà progredire la causa palestinese. Non c’è niente da mediare: gli
israeliani hanno messo in chiaro i loro obiettivi: il meglio che i
palestinesi possono sperare sono bantustan [entità pseudo-statali
istituite nel Sudafrica dell’apartheid per la popolazione nera, ndt.]
divisi tra loro. Uno scenario peggiore sarebbe un “accordo” che
apparirebbe come la realizzazione di alcuni diritti dei palestinesi,
dopo il quale il mondo se ne tirerebbe fuori, lasciando i palestinesi
alla mercé di Israele. Nessuno farà niente per il popolo palestinese –
non gli europei, né gli USA, né Israele – finché non sarà obbligato a
farlo.
In
breve, i palestinesi dovranno costruirsi un potere consistente per
esercitare le pressioni necessarie a raggiungere una soluzione che
garantisca i loro diritti. E per fare ciò avranno bisogno di alcune
delle risorse di potere che hanno acquisito attraverso la partecipazione
al sistema statale, sia legale, diplomatico o attraverso la
partecipazione ad organizzazioni internazionali. Tuttavia queste risorse
di potere devono essere utilizzate in modo molto più efficace e
strategico di quello superficiale con cui le ha utilizzate l’OLP.
Persino la combattuta adesione all’UNESCO, che è costata parecchio
all’organizzazione, avrebbe potuto essere utilizzata per stabilire la
sovranità palestinese su terra e mare.
Inoltre
immaginate la diversa situazione oggi se l’OLP avesse “attivato” la
sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul muro
illegale di Israele che serpeggia nei TPO [Territori Palestinesi
Occupati, ndt.]. Benché fosse un’opinione consultiva, il suo chiaro
richiamo a ogni Stato a “non riconoscere la situazione illegale
determinata dalla costruzione del muro” e, cosa ancora più importante, a
non fornire alcun aiuto o assistenza che potesse mantenere la
situazione, avrebbe potuto essere utilizzato per spingere i Paesi
europei consapevoli delle regole a garantire in modo molto più decisivo
che le loro relazioni con Israele non appoggiassero le illegali colonie
israeliane.
È
stato a causa del fatto che l’OLP non ha capitalizzato quello che
all’epoca un membro della delegazione palestinese descrisse in privato
come questa “grande vittoria” che la società civile palestinese,
esattamente un anno dopo, ha lanciato il movimento BDS, con il chiaro
intento di difendere le leggi internazionali e investire un’importante
fonte di potere in esse.
La
strada che abbiamo davanti è lunga. Nessuno si affretta ad aiutare i
palestinesi a ottenere i loro diritti. Perciò non c’è fretta per
decidere sul definitivo risultato politico: entrambe [le soluzioni]
possono servire pur di raggiungere i diritti dei palestinesi. Questo è
stato l’intelligente approccio strategico dei fondatori del movimento
BDS. Data la confusione del movimento nazionale e la mancanza di
consenso riguardo agli obiettivi politici, i fondatori si sono piuttosto
concentrati sui diritti come obiettivi, chiedendo la realizzazione
dell’autodeterminazione attraverso la liberazione dall’occupazione,
l’uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele e la giustizia per i
rifugiati palestinesi nel rispetto del loro diritto al ritorno. Ciò ha
permesso al movimento di raggiungere il più ampio spettro della società
palestinese così come degli attivisti della solidarietà internazionale –
e di costruire una considerevole posizione di forza.
Ogni
elemento di forza a disposizione dovrebbe essere analizzato e compreso
per quello che può offrire, per le sue positività e i suoi tranelli, e
la società civile palestinese dovrebbe allearsi con l’OLP (o ciò che ne
rimane) per quanto possibile per portare avanti gli interessi nazionali
palestinesi e per opporsi ai rappresentanti politici palestinesi quando
mettono a rischio questi interessi. 2
Nella discussione che segue mi concentrerò su uno dei principali punti
di forza, la narrazione palestinese, e sui modi in cui possa essere più
efficacemente utilizzata per portare avanti i diritti dei palestinesi.
Ridefinire la narrazione sulla Palestina (e sul BDS)
Parte
della narrazione palestinese ha a che fare con il passato, e parte con
gli obiettivi della lotta palestinese e guarda più verso il futuro. La
parte rivolta al futuro rimane in silenzio e poco efficace, mentre
quella sul passato è molto più dettagliata.
La
narrazione del passato è, per i palestinesi, una questione
esistenziale: esigono che la realtà di quanto successo alla Palestina e
ai palestinesi sia vista come l’ingiustizia che è stata. È per questo
che lo scorso anno durante il centesimo anniversario della dichiarazione
Balfour [con cui l’impero inglese si impegnò a favorire la formazione
di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.] così tanto tempo è stato
dedicato a chiedere le scuse da parte della Gran Bretagna, i cui
obiettivi coloniali consentirono la perdita della Palestina e la
creazione di Israele. E questa è la ragione per cui così tanto tempo
verrà dedicato quest’anno, il settantesimo anniversario della Nakba
(catastrofe), a quella narrazione della perdita.
Le
scuse da parte della Gran Bretagna sarebbero bastate ma non sono mai
state in discussione: gli ex-poteri coloniali non vogliono offuscare le
loro stesse narrazioni, per quanto orribili possano essere, o aprire
loro stessi la strada a richieste di riparazione. Ma la situazione è
diversa nel caso di Israele. Se ci deve essere un diverso, miglior
futuro tra Israele e il popolo della Palestina storica ci dev’essere non
solo il riconoscimento dell’ingiustizia che il progetto sionista ha
perpetrato sui palestinesi, ma anche una manifestazione di pentimento, e
un risarcimento. È necessario per sanare la ferita nazionale del popolo
e di ogni singolo palestinese.
Può
sembrare donchisciottesco parlare di questa richiesta in un momento in
cui Israele appare così potente e i palestinesi così oppressi e senza
aiuti. Eppure il riconoscimento, le scuse e le riparazioni sono anche
necessarie per esorcizzare il fantasma che perseguita gli israeliani.
C’è un timore profondamente radicato che la narrazione che sostiene la
creazione dello Stato di Israele – quella di coraggiosi pionieri che
fanno miracoli in un deserto ostile e disabitato – sia messa in evidenza
per la vergogna che è stata, come lo sarebbe tutta la crudeltà
deliberata che l’accompagnò e ancora l’accompagna. Ciò danneggerebbe il
progetto sionista alla radice.
Di
fatto andare oltre questa narrazione non è affatto impossibile: ciò è
stato ottenuto dai molti ebrei che si stanno allontanando o si sono
allontanati dall’ideologia del sionismo per difendere diritti umani
universali. Ed è la base di un futuro alternativo in cui palestinesi ed
ebrei vivano insieme come uguali. Questo futuro è già presente in alcune
organizzazioni degli Stati Uniti, tali come “Jewish Voice for Peace”
[“Voci ebraiche per la Pace, ndt.], in rapida crescita, che comprende
parecchi palestinesi tra i suoi membri, così come gruppi di “Studenti
per la Giustizia in Palestina” nei campus negli USA, che comprendono
palestinesi, ebrei e un insieme di altre etnie e religioni.
Ma
i palestinesi hanno urgentemente bisogno di una narrazione che guardi
oltre, che li unifichi e che comunichi la forza della loro visione.
Israele continua a dominare la narrazione in Occidente, dove ha la
maggior parte della sua base di potere, nonostante gli attacchi
realizzati da scrittori ed analisti palestinesi e da numerose
organizzazioni ed individui del movimento di solidarietà con i
palestinesi. È in parte la mancanza di una visione unitaria che guardi
avanti e sia positiva da parte dei palestinesi che consente ad Israele
di farlo.
Inoltre
una narrazione rivolta al futuro può fornire una visione ed una
direzione al movimento palestinese finché non verrà il tempo in cui si
prenda una decisione se l’esito politico finale possa essere uno o due
Stati. Una narrazione unificata è anche importante perché è improbabile
che l’unità politica dei palestinesi sia raggiunta nel prossimo futuro.
Fatah e Hamas sono troppo divisi, e la frammentazione fisica del popolo
palestinese ad opera di Israele ha creato con successo barriere tra
loro. Una narrazione unitaria consentirebbe ad ogni parte del popolo
palestinese di lavorare verso gli stessi obiettivi – e di continuare la
lotta fino a che siano raggiunti questi obiettivi, piuttosto che
fermarsi a metà strada del percorso, come è successo con Oslo.
Questa
narrazione unitaria palestinese esiste già: libertà, giustizia,
uguaglianza. Questi sono gli obiettivi identificati dal movimento BDS.
Questi sono anche gli obiettivi a cui tutti i palestinesi possono
aspirare e che possono appoggiare, e parlano alla situazione di ogni
segmento del popolo palestinese, di quelli che vivono sotto occupazione,
dei palestinesi cittadini di Israele o dei rifugiati ed esiliati. Deve
essere evitata una trappola: chiedendo l’uguaglianza, bisogna adottare
ogni cautela per specificare che questo riguarda i palestinesi cittadini
di Israele e non l’uguaglianza tra i palestinesi che vivono sotto
occupazione e i coloni che vivono nelle illegali colonie israeliane.
Comunque
perché questi obiettivi prendano con successo il proprio posto in prima
linea nel movimento nazionale palestinese, il discorso riguardo al BDS
deve essere ridefinito. Di solito l’attenzione è concentrata sulla
strategia del BDS e non sugli obiettivi identificati dall’appello per il
BDS, benché siano ospitati in primo piano del suo sito web. Da sola, la
strategia del BDS non può ottenere libertà, giustizia ed uguaglianza,
come ben sanno i suoi fondatori. Proprio perché nessun’ altra strategia è
così efficacemente utilizzata e proposta quanto quella del BDS, esso
domina la scena. Bisogna porre attenzione a presentare il BDS come una
delle molte strategie che i palestinesi devono utilizzare, comprese
quelle legali e diplomatiche. Anche cultura ed arte giocano un ruolo
fondamentale nella richiesta dei diritti palestinesi, e stanno
prosperando.
E’
urgente che gli obiettivi siano messi in prima linea: sono un’esaltante
e positiva visione che può rapidamente occupare il primo piano.
Politici palestinesi, società civile e movimento di solidarietà
dovrebbero unificarsi attorno ad essa e chiedere libertà, giustizia ed
uguaglianza. E libertà, giustizia ed uguaglianza possono essere ottenute
con uno Stato unico o con due Stati.
Note:
-
Parte del materiale di questo articolo è stato presentato in un discorso all’assemblea annuale della Campagna di Solidarietà con la Palestina il 27 gennaio 2018. Il discorso è stato pubblicato da Mondoweiss il 31 gennaio 2018.
-
Le fonti di potere e le opzioni palestinesi sono l’argomento di un altro articolo con suggerimenti di numerosi analisti.
Nadia Hijab
Nadia
Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete
politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice nei
media. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab debate on women at work” [Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro], è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è co-autrice di “Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel” [Cittadini in disparte: un ritratto dei palestinesi in Israele] (I.
B. Tauris). È stata capo redazione della rivista londinese “Medio
Oriente” prima di essere assunta alle Nazioni Unite a New York. È
co-fondatrice ed ex-co-direttrice della campagna USA per i diritti dei
palestinesi ed ora fa parte del suo consiglio di amministrazione.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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