Gideon Levy :Una balbettante risposta ad un rifugiato palestinese
Gideon Levy
4 febbraio 2018,Haaretz
Una
pesante ombra morale ha oscurato la fondazione di Israele ed i
palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia.
AMMAN – A me è sembrato che l’uomo
tremasse quando ha chiesto di parlare. Sembrava agitato. Voleva solo
chiedere: “Come vi sentite vivendo in Israele, sulla nostra terra e
nelle nostre case?” Una kefiah sulle spalle (il solo nella stanza ad
indossarla), è il proprietario di un’agenzia giordana di pubbliche
relazioni, un uomo anziano con i capelli brizzolati. Gli organizzatori
avevano esitato ad invitarlo. È conosciuto come l’estremista del gruppo.
Io ero felice che fosse venuto. Dice che non aveva mai incontrato un
israeliano nella sua vita. Sua moglie non c’era; non aveva trovato il
coraggio di venire.
La sera di martedì scorso l’ampia sala
dell’appartamento nel quartiere occidentale Al Rabieh di Amman era
gremito di rifugiati palestinesi – quelli nati sull’altro lato del fiume
Giordano. Si incontrano una volta a settimana, ogni volta in una casa
diversa, anziani cittadini borghesi invecchiati comodamente nel loro
esilio. Alcuni sono stati espulsi o sono fuggiti dal loro Paese da
bambini nel 1948; altri lo hanno dovuto fare nel 1967. Da allora si sono
fatti una loro vita; sono gente che si è costruita una vita da
benestanti. Alcuni di loro leggono Haaretz in inglese. Per la maggior
parte hanno dato un taglio al passato e sono andati avanti.
Ma nessuno ha dimenticato e forse
nessuno ha neppure perdonato. In Israele non hanno mai capito la forza
di questi sentimenti e quanto siano profondi. Si possono accusare i
palestinesi di crogiolarsi nel passato, si può sostenere che hanno avuto
un ruolo nel decidere del proprio destino – ma non si possono ignorare i
loro sentimenti.
Non sono possibili paragoni storici: è
difficile paragonare l’espulsione di nativi centinaia di anni orsono
all’espulsione di un popolo che ricorda ancora la propria casa in cui
ora vivono degli stranieri. Gli ebrei d’Europa e dei Paesi arabi hanno
ottenuto una nuova patria ed alcuni di loro hanno ricevuto addirittura
un risarcimento. Non vale nemmeno la pena di discutere il maldestro
confronto con una manciata di coloni evacuati.
La domanda è sorta nella sala del
defunto “artista nazionale” palestinese Ismail Shammout e della sua
vedova, l’artista Tamam al-Akhal, risuonando tra i muri coperti di
quadri. Per un attimo la cruciale domanda resta là, messa a nudo: Com’ è
vivere sulla terra rubata ad altri?
Un penoso silenzio è caduto nella
stanza. Alcuni si sono sentiti a disagio. Non è bello mettere così in
imbarazzo i propri ospiti.
Non so se ci sia una risposta. Bisogna
riconoscerlo. Per la destra israeliana, i nazionalisti e i razzisti, per
quelli che credono che questa terra appartenga agli ebrei perché Abramo
è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha
promesso, non è un problema rispondere. Si può anche sostenere che gli
ebrei hanno sempre sognato questa terra, ma il fatto è che non si sono
mai preoccupati di stanziarsi qui in massa. Si potrebbe dire –
giustamente – che gli ebrei non avevano dove fuggire durante
l’Olocausto. Ma queste non sono risposte per l’artista Akhal, nella cui
casa d’infanzia a Jaffa vive un’artista israeliana, una donna che molti
anni dopo l’ ha cacciata via e non le ha neanche permesso di vedere la
casa.
Chi ha posto la domanda l’ ha ribadita:
“Voglio capire come vi sentite vivendo in Israele.” Io ho risposto che
mi sento molto in colpa verso il suo popolo, e provo anche vergogna. Non
solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è
stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione
del 1948 e che non è mai cessata.
Poi gli ho
parlato di mio padre, che è stato gettato tra le onde in una barca
illegale di migranti e di mia madre, che è venuta in Israele attraverso
‘Youth Aliyah’ [organizzazione sionista che ha salvato migliaia di
bambini ebrei durante il nazismo portandoli in Palestina, ndtr.].
Non avevano altro luogo in cui fuggire se non questo Paese, che
all’epoca non era il loro. Ed io non ho dove andare, perché questo Paese
è oggi anche il mio Paese. “Ma voi tutte le mattine nuotate in una
piscina su una terra che non vi appartiene”, ha insistito l’uomo. Io
sono stato zitto.
Quale dovrebbe essere la risposta? Per
loro questa è la loro terra che gli è stata tolta con la forza. Non si
può negarlo. Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione dello
Stato, anche se ciò era inevitabile e persino giustificato. Dobbiamo
imparare a convivere con questo. E soprattutto dobbiamo trarre l’unica
conclusione che ne emerge con forza: i palestinesi hanno il diritto ad
una riparazione per l’ingiustizia, attraverso l’inizio di un nuovo
capitolo, costruito interamente sull’uguaglianza in questa terra.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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