Al Mawasi (Gaza), 20 febbraio 2018, Nena News
– Per arrivare da Gaza City ad Al Mawasi, area a sud della Striscia di
Gaza, nel distretto di Khan Younis,si è costretti a prendere un taxi,
come per qualunque spostamento interno alla Striscia perché non ci sono
mezzi pubblici. Si può percorrere la costa e fa piacere vedere sulla
spiaggia diversi gruppi di ragazzi e di ragazze che si godono la vista
del mare, quel mare che non è permesso loro attraversare perché
l’assedio israeliano lo vieta.
Percorrendo i circa 20 chilometri di
lungomare per raggiungere Almjayda nell’area di Mawasi dove ci stanno
aspettando, si ha la prova dell’inquinamento insopportabile che affligge
alcuni punti della Striscia sia per la mancanza di depuratori sia per
lo sversamento delle acque reflue israeliane attraverso il wadi Gaza che si può vedere percorrendo la lunga gabbia per entrare nella Striscia dal valico di Erez.
Si va a Mawasi per seguire un progetto umanitario presentato dall’associazione italiana “Oltre il mare” e sostenuto dalla Fondazione Vik Utopia
e da alcuni donatori individuali che hanno dato fiducia
all’associazione. Tra questi una grande amica della Palestina, studiosa e
docente di lingua e letteratura araba che non potrà più vederne la
realizzazione ma alla quale l’associazione deve molto: Anissa Manca.
Al Mawasi (Foto: Patrizia Cecconi)
Al-Mawasi è un’area costiera
stretta un chilometro e lunga circa 14 che in parte rientra nel
distretto di Khan Younis, quella che interessa il progetto, e in parte
nel distretto di Rafah. In quest’area erano insediati oltre 5mila coloni
che avevano scelto la zona poiché era la più fertile della Striscia
ed aveva anche risorse abbondanti di acqua dolce. Ma dopo il ritiro dei
coloni ordinato da Sharon nel 2005 le canalizzazioni, così almeno ci
dicono i locali, sono state rese inservibili e anche qui c’è il problema
dell’acqua potabile.
Veramente ci sono tanti problemi, non solo quello dell’acqua, e l’uscita dei coloni di 13 anni fa,
se ha migliorato la situazione dei locali che in precedenza erano
impediti nella libertà di movimento persino all’interno della loro
stessa area e spesso sottoposti al coprifuoco, non ha portato
altri miglioramenti visto che poco dopo l’evacuazione dei coloni
l’intera Striscia è stata cinta d’assedio e l’economia gazawa ridotta in
briciole.
E’ un piccolo progetto quello che sta per
essere realizzato in quest’area e della cui filosofia di fondo – che
punta sul potere terapeutico ed educativo del passaggio dal degrado alla
bellezza – forse non interessa molto ai beneficiari, mentre il loro
grandissimo apprezzamento è manifestato per la parte concreta, cioè la realizzazione di un ambulatorio con monitoraggio sanitario gratuito.
Il capo villaggio e lo sheykh della comunità beduina riempiono di
ringraziamenti gli organizzatori e i finanziatori del progetto e
spiegano quanto sia importante per loro sapere che una donna incinta o
un bambino malato possano avere attenzioni e cure. Lo sheykh ci dice che
solo due giorni fa il suo nipotino di tre anni è morto per una
malattia non identificata dal medico dell’ospedale Nasser di Khan
Younis, il più vicino, e dove non ha fatto in tempo a tornare vivo per
essere curato.
Ci dicono anche che una malattia
molto diffusa è il diabete e che sarebbero molto felici se venissero
organizzati degli incontri informativi per contrastarne lo sviluppo.
Insomma tutto quello che è legato alla salute sembra essere ben accolto
ma abbiamo una domanda: dove sono le donne? Ci viene detto che non
erano state avvertite dell’incontro ma che stanno preparando un workshop
per domani. La parentesi si chiude e si passa al discorso sull’economia
locale. La zona ha terreno fertile ma il mercato ortofrutticolo
non ha sbocchi. Praticamente Israele invade i mercati di Gaza con i
suoi prodotti ortofrutticoli e la popolazione gazawi vive in altissima
percentuale di sussidi umanitari mentre potrebbe produrre e vendere autonomamente. Anche questo è un modo per strappare dignità a un popolo.
Al Mawasi (Foto: Patrizia Cecconi)
Il discorso torna sempre sull’assedio,
sull’impossibilità di pescare in mare aperto, sull’impossibilità di
esportare e importare merci e su un futuro che sembra bloccato. Eppure,
in questa situazione di povertà e di futuro apparentemente bloccato i
ragazzi vengono mandati all’università. Anche Talal Abu Haghag, lo
sheykh della comunità beduina, ci dice che i suoi figli più giovani
studiano all’Università di Khan Younis.
Un popolo senza speranza non fa studiare i
suoi figli. Non solo, ma le università costano e se si è disposti a
investire il pochissimo che si ha per far studiare i propri figli questo
significa che la speranza nel futuro non è morta.
A Gaza ormai è crisi umanitaria,
dice qualcuno. E allora alla crisi umanitaria come si risponde se non
rimuovendo gli ostacoli che la determinano? Se si seguita a rispondere
con i sussidi ( e perfino Israele, senza pudore, si sarebbe offerto di migliorare alcune strutture gazawi) piuttosto che rimuovendo l’ostacolo primo che è l’assedio, non si arriva ad altra soluzione
che a quella di mantenere lo status quo e dare ancora più forza
all’assediante. Non si può accettare. La solidarietà non va confusa con
la beneficenza proprio perché la prima ha l’obiettivo di aiutare a
cambiare la situazione, mentre la seconda, in qualche modo, la mantiene.
Mentre parliamo di questo, attorno a noi
c’è una ressa di ragazzini e ragazzine che chiedono foto e altri che
ridono ma si nascondono all’obiettivo, qualche metro più in là invece
c’è un gruppetto che calcia un pallone piuttosto maldestramente finendo
per farselo sequestrare dal capo villaggio. E’ il gruppetto che
all’inizio aveva chiesto ai responsabili del progetto se si poteva fare
un campo da calcio. Purtroppo no, non ci sono i fondi per quello e
neanche c’è lo spazio. I ragazzini hanno risposto che lo spazio si può
trovare e hanno ragione, ma non ci sono i fondi.
Ora, uno dei ragazzi è tornato all’attacco e
ha gridato un nome storpiato che l’interprete traduce in Francesco
Totti. Francesco Totti, anzi “ Francisco Tutti” gridano con gli occhi
brillanti in quattro o cinque insieme e poi aggiungono altre parole che
ci vengono tradotte come qualcosa di simile a “voglio giocare come
Francesco Totti”.
Chiudiamo l’incontro con le risate
di questi ragazzi e una riflessione estemporanea: troppo vitali e con
troppa fiducia nel futuro per poter essere schiacciati dall’assedio
israeliano. Chissà che tra di loro non ci sia un Francesco
Totti in erba, ma chissà che non ci sia un nuovo leader capace nei
prossimi anni di ottenere la fine dell’assedio e dell’occupazione.
Allora non solo l’area di Al Mawasi, ma l’intera Palestina diventerebbe
finalmente una terra da godere in libertà. Nena News
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