Ramzy Baroud :70 anni di promesse mancate: la storia non raccontata del piano di partizione
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22 novembre 2017, Palestine Chronicle
In un recente discorso prima del gruppo di ricerca di Chatham House [Ong britannica che si occupa di ricerche di politica internazionale, tra i più influenti al mondo, ndt.]
di Londra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha
affrontato la questione dello Stato palestinese da un punto di vista
astratto.Prima di pensare alla creazione di uno Stato palestinese, ha affermato, “è tempo che noi riconsideriamo se il nostro modello di sovranità, e di sovranità illimitata, sia applicabile ovunque nel mondo.”
Non
è la prima volta che Netanyahu getta discredito sull’idea di uno Stato
palestinese. Nonostante le chiare intenzioni di Israele di vanificare
ogni possibilità di creare un tale Stato, l’amministrazione USA di
Donald Trump, a quanto sembra, sta mettendo a punto piani per un
“accordo di pace definitivo.” Il New York Times suggerisce che “il piano previsto dovrà essere costruito intorno alla cosiddetta soluzione dei due Stati”.
Ma
perché sprecare sforzi, quando tutte le parti in causa, compresi gli
americani, sanno che Israele non ha intenzione di consentire la
creazione di uno Stato palestinese e gli USA non hanno né l’influenza
politica, né il desiderio, per imporla?
La risposta forse non si trova nel presente, ma nel passato.
Inizialmente
uno Stato arabo palestinese era stato proposto dagli inglesi come
tattica politica, per fornire una copertura giuridica alla creazione di
uno Stato ebraico. Questa tattica politica continua ad essere
utilizzata, anche se mai con l’obbiettivo di trovare una “giusta
soluzione” al conflitto, come spesso viene propagandato. Quando, nel
novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour
promise al movimento sionista di garantire uno Stato ebraico in
Palestina, l’ipotesi, in precedenza remota e poco plausibile, iniziò a
prendere forma. Si sarebbe realizzata senza sforzo, se i palestinesi non
si fossero ribellati.
La
rivolta palestinese del 1936-1939 dimostrò un impressionante livello di
consapevolezza politica collettiva e di capacità di mobilitazione,
nonostante la violenza britannica.
Allora
il governo britannico inviò in Palestina la Commissione Peel per
analizzare le radici della violenza, nella speranza di sedare la rivolta
palestinese.
Nel
luglio 1937 la Commissione pubblicò il suo rapporto, che scatenò
immediatamente la rabbia della popolazione nativa, che era già
consapevole della collusione tra inglesi e sionisti.
La
Commissione Peel concluse che “le cause sottostanti ai disordini” erano
il desiderio di indipendenza dei palestinesi e il loro “odio e timore
per la creazione del focolare nazionale ebraico.” Sulla base di questa
analisi, raccomandava la partizione della Palestina in uno Stato ebraico
ed uno Stato palestinese, quest’ultimo destinato ad essere incorporato
nella Transgiordania, che era sotto il controllo britannico.
La
Palestina, come altri Paesi arabi, era teoricamente pronta per
l’indipendenza, in base ai termini del mandato britannico, come
garantito nel 1922 dalla Società delle Nazioni. Per di più, la
Commissione Peel raccomandava un’indipendenza parziale per la Palestina,
diversamente dalla piena sovranità assicurata allo Stato ebraico.
Ancora
più allarmante era il carattere arbitrario di quella divisione. Allora
il totale della terra posseduta dagli ebrei non superava il 5,6%
dell’estensione dell’intero Paese. Lo Stato ebraico avrebbe incluso le
regioni più strategiche e fertili della Palestina, compresa la Galilea
Fertile [nota come Bassa Galilea, ndt.] e molta parte dell’accesso al mar Mediterraneo.
Durante
la rivolta furono uccisi migliaia di palestinesi, che continuavano a
rifiutare la svantaggiosa spartizione e lo stratagemma britannico teso
ad onorare la Dichiarazione Balfour e privare i palestinesi di uno
Stato.
Per
rafforzare la propria posizione, la leadership sionista cambiò rotta.
Nel maggio 1942 David Ben Gurion, allora rappresentante dell’Agenzia
Ebraica, partecipò a New York ad una conferenza che riuniva i dirigenti
sionisti americani. Nel suo intervento chiese che l’intera Palestina
divenisse un “Commonwealth ebraico.”
Un
nuovo potente alleato, il presidente [americano] Harry Truman,
incominciò a colmare il vuoto lasciato aperto, in quanto gli inglesi
erano propensi a terminare il loro mandato in Palestina. In “Prima della
loro diaspora”, Walid Khalidi scrive:
“(Il
Presidente USA Harry Truman) fece un passo avanti nel suo appoggio al
sionismo, sostenendo un piano dell’Agenzia Ebraica per la partizione
della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese. Il piano
prevedeva l’annessione allo Stato ebraico di circa il 60%della
Palestina, in un momento in cui la proprietà ebraica della terra del
Paese non superava il 7%.”
Il
29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, in seguito a forti
pressioni dell’amministrazione USA di Truman, approvò, coi voti
favorevoli di 33 Stati membri, la Risoluzione 181 (II), che auspicava la
partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno Stato
palestinese ed un regime di governo internazionale per Gerusalemme.
Se
la proposta britannica di partizione del 1937 era già abbastanza
negativa, la risoluzione dell’ONU fu motivo di totale sgomento, in
quanto assegnava 5.500 miglia quadrate [circa 14.000 Km2, ndt.] allo
Stato ebraico e solo 4.500 [circa 11.000 Km2, ndr.] ai palestinesi – che
possedevano il 94,2% della terra e rappresentavano oltre i due terzi
della popolazione.
La
pulizia etnica della Palestina iniziò immediatamente dopo l’adozione del
Piano di Partizione. Nel dicembre 1947 attacchi sionisti organizzati
contro le zone palestinesi provocarono l’esodo di 75.000 persone. Di
fatto, la Nakba palestinese – la Catastrofe – non iniziò nel 1948, ma
nel 1947.
Quell’esodo
di palestinesi fu congegnato attraverso il Piano Dalet (Piano D), che
fu attuato per fasi e modificato per adeguarsi alle esigenze politiche.
La fase finale del piano, iniziata nell’aprile 1948, comprese sei
importanti operazioni. Due di esse, operazioni “Nachshon” e “Harel” ,
avevano lo scopo di distruggere i villaggi palestinesi all’interno e nei
dintorni del confine tra Jaffa e Gerusalemme. Separando i due
principali conglomerati centrali che costituivano il proposto Stato
arabo palestinese, la leadership sionista intese spezzare ogni
possibilità di coesione geografica palestinese. Questo continua ad
essere l’obiettivo fino ad oggi.
I
risultati conseguiti da Israele dopo la guerra non si attennero molto
al Piano di Partizione. I territori palestinesi separati di Gaza,
Cisgiordania e Gerusalemme est costituivano il 22% della dimensione
storica della Palestina.
Il
resto è una triste storia. La carota dello Stato palestinese viene
esibita di tanto in tanto proprio dalle forze che spartirono la
Palestina 70 anni fa e poi collaborarono diligentemente con Israele per
garantire il fallimento delle aspirazioni politiche del popolo
palestinese.
Infine
il discorso della partizione è stato rimodellato in quello della
“soluzione dei due Stati”, propugnato negli ultimi decenni da diverse
amministrazioni USA, che hanno mostrato poca sincerità nel trasformare
in realtà persino un simile Stato.
Ed
ora, 70 anni dopo la partizione della Palestina, esiste un solo Stato,
benché governato da due diversi sistemi giuridici, che privilegia gli
ebrei e discrimina i palestinesi.
“Esiste
già da molto tempo un solo Stato”, ha scritto il giornalista israeliano
Gideon Levy in un recente articolo su Haaretz. “È giunto il momento di
lanciare una battaglia sulla natura del suo regime.”
Molti palestinesi lo hanno già fatto.
Ramzy
Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il
suo libro in uscita è “L’ultima terra: una storia palestinese” (Pluto
Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi sulla Palestina
all’università di Exeter ed è ricercatore ospite presso il Centro
Orfalea per gli Studi globali ed internazionali dell’università Santa
Barbara della California. Il suo sito web è:www.ramzybaroud.net
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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