Paola Caridi L’Est e l’Ovest. I punti cardinali e la revisione della storia a Gerusalemme | invisiblearabs


L’Est e l’Ovest. I punti cardinali e la revisione della storia a Gerusalemme 1 dicembre 20171 dicembre…
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 Devo chiarire, prima di proseguire, qual è la mia posizione. Come giornalista e come storica, la mia descrizione di Gerusalemme come “Una Città” è la città reale nella quale ho vissuto per un decennio. La città che ho osservato e in cui ho lavorato, delle cui sofferenze e complessità sono stata testimone. Non ho alcun rapporto o vicinanza con quello che i governi israeliani hanno pensato e pensano di Gerusalemme dal 1967, e cioè una città unificata sotto l’autorità israeliana e la capitale eterna dello Stato di Israele, capitale non riconosciuta per il diritto internazionale. Quella che cerco di descrivere è la città reale in cui i suoi abitanti – nonostante tutto – condividono uno spazio comune secondo modalità e condizioni asimmetriche, come occupanti e governanti di un settore della città (gli israeliani) e occupati (i palestinesi).
La mia speranza, tutta personale, per una pace lunga, giusta e duratura, è contenuta nell’idea di Gerusalemme Una e Condivisa, così come immaginata da israeliani e palestinesi che, dal 2012, stanno lavorando sul terreno per una visione comune, One Homeland/Two States. Gerusalemme Una e Condivisa sotto l’amministrazione congiunta delle due comunità. Questa visione non è nuova: è parte di un dibattito molto lungo che comprende non solo l’idea della soluzione di Uno Stato, ma anche la discussione di uno Stato binazionale.  Bastano due nomi di altissimo profilo tra gli intellettuali di entrambi i ‘campi’ per indicare la profondità della discussione, seppure limitata a una minoranza lungo una storia che non inizia con la fondazione dello Stato di Israele, ma va indietro nel Novecento. Il primo nome è quello di Martin Buber, il binazionalista Martin Buber che era contro l’idea di uno Stato ebraico, e che successivamente spiegò il suo binazionalismo in una audizione di fronte alla Commissione di Inchiesta Anglo-Americana nel 1947 assieme all’allora rettore dell’Università Ebraica Judah Magnes. Il secondo nome, dall’altro lato, è quello di Edward Said, che in suo famoso articolo del 1999 per il New York Times Magazine si schierò per la Soluzione di Uno Stato, un’idea decisamente poco diffusa in quel periodo.
A Gerusalemme ho dedicato il libro un po’ particolare, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli, 2013), che è da pochissimo uscito in inglese, pubblicato dall’American University in Cairo Press, col titolo Jerusalem Without God. Portrait of a Cruel City. Sono appena tornata dagli Stati Uniti, da un lungo tour concentrato soprattutto in alcune università americane (Università di California Irvine, Harvard, Columbia, Georgetown). Quella che segue è la traduzione e rielaborazione dei miei interventi nelle università, suddivisa in due puntate.
La prima puntata parla di Spazio e Punti cardinali
L’Est e l’Ovest. I punti cardinali e la revisione della storia a Gerusalemme

 “Gerusalemme ha sempre avuto più storia che geografia°. Avishai Margalit, filosofo e pacifista israeliano, scriveva nel 1991 quella che, a buon titolo, potremmo definire una constatazione. Gerusalemme ha avuto la sua storia ed è dentro la Storia con un peso tuttora rilevante. Per lui, e in fondo per tutti noi, Gerusalemme va così tanto oltre la cronaca da rimanere incastonata nel millenario percorso della sua storia, e del suo mito. L’archetipo dello spazio urbano e sociale. L’archetipo della Città Santa in terra. L’archetipo della complessità storica del Mediterraneo.
E se provassimo, invece, a invertire i termini della frase di Margalit? Se provassimo a destrutturare quello che, in generale, pensiamo su Gerusalemme usando una delle buone regole di Roland Barthes? “La città è un discorso”, scriveva. Dunque, abbiamo bisogno di imparare il vocabolario, la grammatica, la sintassi della lingua di Gerusalemme. Ed è la geografia a rappresentare oggi l’elemento fondamentale del tessuto linguistico e semantico della città.
Gerusalemme, ora, ha più geografia di storia.
Prima parte – LO SPAZIO
 Lo spazio occupato dalla città cresce gradualmente e senza interruzioni dal 1967, e cioè sin dall’occupazione di Gerusalemme e la sua ‘unificazione’ sotto il controllo delle autorità civili e militari israeliane. Gerusalemme non si è mai fermata nella sua crescita, perché il suo destino politico in quanto realtà urbana è stato ed è ingabbiato dalla sua espansione. Il destino della città si è, cioè, sovrapposto alla sua estensione. I confini municipali di Gerusalemme, già modificati e allargati dalle autorità israeliane subito dopo la guerra dei Sei Giorni, sono stati tirati da una parte e dall’altra come un elastico. O come una coperta troppo corta. Ora i confini comprendono aree, a est e a sud, che sono parte della città occupata. Perché Gerusalemme è, nel suo settore orientale, a tutt’oggi una città occupata. Una città occupata il cui status è parte integrante di tutti i piani di partizione, suddivisione, confederazione; di tutte le risoluzioni dell’Onu sul conflitto israelo-palestinese; di tutti i tentativi di soluzione della questione israelo-palestinese, dal processo di pace di Oslo alla soluzione di un solo Stato.
Nel settore occupato della città, e cioè in quell’arco che parte dal nord di Gerusalemme e, attraverso il settore orientale, arriva sino a sud, il più importante sindaco israeliano del post’1967, il laburista Teddy Kollek, ha anzi concentrato la sua strategia urbana. In particolare attraverso la sua “strategia delle cinque dita”. Nei fatti, la strategia ha significato incuneare quartieri israeliani (a tutti gli effetti colonie, per la comunità internazionale, in quanto costruiti nella parte di Gerusalemme occupata) tra i quartieri palestinesi. Gli obiettivi del sindaco Kollek, e della politica nazionale israeliana, erano essenzialmente due. Il primo: attrarre la popolazione israeliana a Gerusalemme attraverso una politica abitativa attiva e costante, e rendere impossibile una nuova divisione della città attraverso la presenza delle colonie israeliane a oriente della Linea Verde. Il secondo obiettivo, parallelo al precedente: separare chirurgicamente le parti della città in cui l’incremento demografico palestinese è maggiore, così da modificare il rapporto statistico tra le comunità e rendere le percentuali della popolazione più favorevoli a Israele.
La legge sulla Grande Gerusalemme, la cui discussione alle commissioni della Knesset è stata di recente sospesa e rinviata dal governo Netanyahu dietro le pressioni della presidenza Trump, è stata oggetto di articoli e commenti da parte della stampa di tutto il mondo lo scorso ottobre. Se approvata, la legge porterà a una maggiore espansione urbana sia in termini di spazio sia in termini di popolazione, per sostenere – appunto – l’aumento percentuale della porzione israeliana della popolazione di Gerusalemme entro i confini municipali. È per raggiungere un risultato di questo tipo che colonie molto popolose come Maale Adumim rientrebbero per la nuova legge entro i confini di Gerusalemme, assieme – per esempio – al blocco di Gush Etzion, tra Betlemme e Hebron. In parallelo, le autorità israeliane vorrebbero spostare al di là dei confini municipali quartieri palestinesi estremamente popolosi come Shu’afat, l’unico campo profughi a Gerusalemme e, per inciso, uno dei villaggi della cintura urbana inseriti nel 1947 nel piano di partizione dell’Onu all’interno del corpus separatum.
Gerusalemme ha dunque, oggi, più geografia che storia.
Seconda parte – I PUNTI CARDINALI
Comprendere Gerusalemme senza mappe sarebbe impossibile, di questi tempi. Linee, confini, punti cardinali, strade, piazze, cartelli stradali sono il vocabolario specifico gerosolimitano. Ci dicono quello che la città è divenuta, oggi.
È superfluo dire che la Linea Verde ha cambiato la storia della città? Certo, ma è bene ripeterlo una e mille volte, a giudicare dall’amnesia che di questi tempi colpisce i politici, l’intellighentsjia italiana e internazionale, l’opinione pubblica, virtuale e fisica. Dal 1948 c’è un Oriente e un Occidente, ci sono due precisi punti cardinali attraverso i quali usiamo definire la struttura interna e internazionale della città. Così, la storia diplomatica è divenuta dal 1948 in poi una parte ineliminabile della vita di ogni singolo abitante di Gerusalemme.
Ognuno possiede la propria bussola a Gerusalemme. Ognuno sa come calcolare il momento e il luogo esatto in cui si trova. Ci sono pochissimi altri posti nel mondo in cui i punti cardinali sono così importanti, determinanti si potrebbe dire. C’è una differenza abissale, soprattutto in termini di diritti civili e sociali, tra chi nasce a est, a Gerusalemme est, e chi nasce a ovest, a Gerusalemme ovest. Dall’una o dall’altra parte della Linea Verde che, a Gerusalemme, è ancora fisicamente evidente: segue, in gran parte, la Road no. 1, l’arteria che da fuori città si incunea e arriva lambire la Città Vecchia. Perché l’intera Città Vecchia di Gerusalemme – è bene ricordarlo – è nel settore occupato del territorio urbano. È a Gerusalemme est, a oriente della Linea Verde.
C’è un abisso tra chi va a vivere in una casa a ovest, e chi vorrebbe costruirla a est, ma senza riuscire a ottenere una licenza edilizia. O tra chi va a lavorare da est a ovest, e chi può passare un checkpoint da ovest verso oriente con la propria macchina senza essere fermato. La bussola tascabile che ogni abitante possiede, a Gerusalemme, serve sia a descrivere la sua condizione, sia a definire i limiti della sua esistenza. Definisce i diritti realizzati e quelli solo desiderati. Definisce i diritti di cittadinanza e le condizioni di subordinazione. E la bussola personale diventa, in questo modo, una sorta di faro, di lanterna che indica il percorso di vita.
I punti cardinali di Gerusalemme seguono le linee spezzate della storia, le prevaricazioni degli attori politici internazionali, dall’epoca degli imperialismi ai neocolonialismi mascherati. I punti cardinali di Gerusalemme seguono soprattutto, ed è banale ricordarlo, le matite spesse usate da diplomatici e militari, politici locali e leader nazionali. Ma ciò che è stato segnato in modo impersonale e artificiale sulle mappe diviene, nella trama urbana, una ferita nella terra. Come un coltello piantato nella carne viva. I centimetri sulle mappe divengono metri, decine di metri, centinaia di metri nella trama urbana.
Eppure… eppure, nonostante l’incidenza della storia diplomatica recente, quello che la storia contemporanea significa a Gerusalemme, per il popolo di Gerusalemme, per le comunità di Gerusalemme, per i gerosolimitani, non può cancellare la Storia di Gerusalemme, lunga e complessiva e complessa. La sua long durèe. Ciò significa che per i suoi abitanti Gerusalemme è una. La città non è “una parte” della città. Non solo per gli israeliani. Allo stesso modo per i palestinesi. Gerusalemme è una, e solo una. Non c’è un oriente palestinese e un occidente israeliano, come se nella storia della città il senso di appartenenza delle comunità potesse essere definito dal loro legame con un punto cardinale preciso.
C’è un esempio che può spiegare in modo chiaro la frattura tra le mappe politiche e il senso di appartenenza alla città.
Nella prima metà del ventesimo secolo non esisteva uno sviluppo urbano palestinese così massiccio a est di contro a una espansione della presenza ebraica a ovest della città. Al contrario, entrambe le comunità hanno sviluppato la propria presenza (borghese) a occidente, semplicemente perché l’ovest era il punto cardinale del mare, e dunque del commercio. Una spinta naturale, in una città comunque complessa ma non segnata da una divisione netta.
Le proprietà immobiliari in quella che poi è divenuta Gerusalemme ovest, nel 1948, erano per il 40% palestinesi, per il 26% ebraiche, e per il resto (circa il 34%) appartenenti in qualche modo alla dimensione pubblica o alle istituzioni religiose palestinesi. Non è un dettaglio, questo. Contraddice, anzi, la percezione che di Gerusalemme si ha in Occidente. Una percezione secondo la quale le comunità israeliana e palestinese a Gerusalemme appartengano, ognuna di loro, a un preciso punto della bussola urbana. Non è questo il caso, nella realtà. Edward Said era nato in quella che è ora la parte occidentale di Gerusalemme, a Talbyeh, un quartiere che è rimasto profondamente nella memoria gerosolimitana come un quartiere costruito dalla media e alta borghesia palestinese cristiana. Martin Buber visse nella stessa casa appartenente alla famiglia Said, per un periodo.
Durante i miei dieci anni a Gerusalemme ho provato  per la città quello che Edward Said molti anni prima ha descritto della storia del suo popolo e degli israeliani. Dopotutto, scriveva, “israeliani e palestinesi sono così aggrovigliati, nonostante la loro ineguaglianza e la loro reciproca antipatia, che semplicemente una separazione netta non si verificherà, non si potrà verificare e non potrà funzionare”.
C’è un secondo esempio, un esempio doloroso nella coscienza nazionale e nella memoria palestinese. A Gerusalemme, le persone che hanno bisogno di un sostegno psichiatrico vanno a ovest, al Centro di salute mentale di Kfar Shaul. Prima del 1948, c’era Deir Yassin, lì, e lì sono ancora oggi i resti di Deir Yassin. Il luogo della strage perpetrata dalla Stern Gang e dall’Irgun nel maggio del 1948: il paese della cintura di Gerusalemme fu svuotato dei suoi abitanti, in gran parte uccisi, e i sopravvissuti condotti su camion accanto alla porta di Damasco. Il villaggio è ancora lì, le casette intatte. Il villaggio è il Centro di Igiene Mentale di Kfar Shaul, invisibile ai passanti, chiuso dalla recinzione. Deir Yassin era uno dei villaggi che, nella parte occidentale della mappa, circondavano come un anello Gerusalemme e, prima del 1948, rifornivano la città di verdura e frutta, latte e olive, lavoratori. Non solo. Deir Yassin era uno dei paesi che dovevano rientrare entro i confini del corpus separatum nel 1947. I vincitori hanno sovrapposto un nome, Kfar Shaul, a Deir Yassin. Ma le tracce della storia, seppure nascoste ai più, sono ancora lì.
E c’è un terzo esempio, tra i molti che si potrebbero fare, che descrive la vita all’interno della Città Vecchia come la vita in uno spazio urbano non cristallizzato secondo i punti cardinali. Non rinchiuso entro limiti definiti con precisione da cartografi militari.
Una premessa necessaria. Fino all’ultima parte del diciannovesimo secolo, Gerusalemme era la Città Vecchia. Chiusa all’interno delle mura antiche di Solimano il Magnifico. La città era la Città Vecchia, una piccola città cinta da mura.
Fino all’avvento del Mandato britannico, Gerusalemme era molto più intrecciata, mescolata in termini confessionali di quanto noi possiamo oggi immaginare. I britannici hanno rotto la sottile e costante osmosi tra le comunità lungo confini invisibili, lungo terre-di-nessuno che erano allo stesso tempo luoghi di contaminazioni e mescolanza. C’erano i caffè, c’erano i commerci, c’era una singolare possibilità di mescolanza e dunque di modernità. I nuovi governanti sotto mandato internazionale suddivisero la Città Vecchia entro quattro quartieri separati che col tempo sono divenuti sempre più settori omogenei secondo affiliazioni etnoreligiose. Così, oggi, conosciamo la Città Vecchia attraverso la sua suddivisione in quattro quarti, in quattro quartieri: musulmano, cristiano, armeno, ebraico. Separati, oggi ancor più di prima.
E ancora una volta, l’intervento politico e internazionale ha modificato la composizione urbana e la vita sociale di Gerusalemme.
Gerusalemme ha più geografia che storia, di questi tempi.
Alla prossima puntata, dunque. Dove si parla di Ridefinizione spaziale della vita sociale e comunitaria di Gerusalemme. E infine di Ridefinizione spaziale della città in quanto tale.

 SECONDA PARTE


Gerusalemme, città senza piazze

 

Questa è la seconda e ultima parte delle letture che ho tenuto nel mio tour negli Stati Uniti, Messe insieme, rielaborate, e soprattutto ritradotte. Tra una sezione e l’altra è passata un brandello di storia, e cioè la dichiarazione di Donald Trump con la quale rende formale il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Un gesto formale politico, che fa seguito alla presa di posizione del Congresso nel 1995 per lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ho dunque aggiornato questo lavoro alla luce di quello che sta accadendo in questi giorni. Buona lettura.
Terza parte – RIDEFINIZIONE SPAZIALE DELLA VITA SOCIALE E COMUNITARIA DI GERUSALEMME
Gerusalemme, l’archetipo della Città, è a rischio in quanto città. Perché non ha più una piazza.
Rinchiusi all’interno delle vecchie linee di confine del Mandato britannico e dentro le nuove limitazioni legate alle questioni di sicurezza gestite dagli israeliani, i quattro quartieri della Città Vecchia non condividono più uno spazio comune. Nessuna strada funziona più come, per esempio, funzionava il Cardo nei tempi antichi. Come un’asse che univa la città ed era luogo di commercio e mescolanza. Neanche il mercato all’interno della Porta di Damasco è più lo stesso luogo in cui tessere relazioni, come tutti i mercati.
Non si riesce più a trovare, a intravedere una piazza condivisa e pubblica.
Se la piazza è il simbolo per eccellenza di uno spazio pubblico condiviso da tutte le comunità, della mescolanza e della libera circolazione di uomini e relazioni, allora a Gerusalemme mancano spazi pubblici. Non  ci sono nella Città Vecchia. Né nella Gerusalemme nuova.
La limitazione e l’esclusività degli spazi sociali è definita al meglio dalle due piazze più famose. Nei fatti, le uniche due grandi piazze nella Città Vecchia. La Spianata delle Moschee e, nello spazio sottostante, la piazza che riunisce e conduce i fedeli ebrei al Muro del Pianto. Una piazza accanto all’altra. Marchiate con una connotazione religiosa assoluta, e anche con un profondo significato politico-religioso.
La Spianata delle Moschee e la Piazza del Muro del Pianto sono larghe, grandi, ma non inclusive. Simboleggiano la separazione e l’esclusività a Gerusalemme in quanto città contesa. Per gli ebrei, quella che da oltre mille anni è la Spianata delle Moschee è considerata il cuore dell’ebraismo e della fede. Per i fedeli palestinesi musulmani, il Muro del Pianto è il luogo negato della fede, il Muro del Buraq. Rappresenta anche la cancellazione della storia palestinese gerosolimitana attraverso la distruzione, da parte delle autorità israeliane, dell’antico quartiere Mughrabi nel luglio 1967, subito dopo la guerra dei Sei Giorni.
Entrambe le piazze sono luoghi esclusivi, in massima parte proibite ai membri delle altre comunità. Le realtà dell’una e dell’altra parte in conflitto si fronteggiano in modo non molto dissimile da quello che altre città contese hanno vissuto. Come a Berlino, l’esempio più evidente e immediato per il pubblico europeo. Fino al 1989, fino alla caduta del Muro di Berlino, i settori occidentale e orientale della città si fronteggiavano lungo la linea di divisione e la terra di nessuno. Est e Ovest si mostravano all’Altro con quello che ritenevano il simbolo della propria superiorità in termini di modello sociopolitico ed economico. Erano simboli d’impatto, simboli architettonici, edifici magnifici che dovevano imporre la propria immagine: a Ovest la StaatsBibliothek e la Philarmonie. A Est il complesso della Alexanderplatz.
Anche a Gerusalemme, le piazze si fronteggiano. E si fronteggiano in una porzione di città che assume in se stessa il conflitto più politico che religioso. Le piazze sono infatti nella Città Vecchia, e la Città Vecchia è nel settore occupato di Gerusalemme, nella parte orientale della Linea Verde. Il confronto tra le due piazze ad excludendum è dunque l’espressione spaziale e architettonica delle rispettive comunità che compongono la popolazione gerosolimitana, israeliana e palestinese. Quest’ultima rappresentata, appunto, nella sua dimensione politica e nazionale, che i palestinesi siano musulmani o cristiani. Le piazze sono un’espressione spaziale che in se stessa segna la differenza tra il simbolo – la piazza – e la realtà della Città Vecchia, sovrappopolata, chiusa, stretta nei suoi vicoli, i suoi angoli privi di luce. In quanto spazi larghi e vuoti, le piazze sono dunque una dimostrazione chiara di potere: sono spazi aperti che contengono la comunità dei credenti, vale a dire le masse, oltre a contenere i simboli della fede.
Le piazze della esclusività e della esclusione incarnano ciò che la realtà ci comunica. La storia contemporanea della città, quella successiva al 1948 e alla divisione di Gerusalemme,  è stata riprodotta anche nella sua dimensione architettonica sulla narrazione di ognuna delle singole parti. Non c’è più una storia comune della città, come invece c’era prima del 1948. Ci sono, oggi, storie parallele che gli attori politici e diplomatici si rifiutano di conoscere. Se le conoscessero, entrambe, le loro proposte di soluzione del conflitto non sarebbero così, a loro volta, esclusive. La decisione di Donald Trump di dare seguito al Jerusalem Embassy Act approvato nel 1995 dal Congresso americano, e dunque di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, è in linea con questa interpretazione a senso unico della storia della città.
Un altro esempio possibile, e molto recente, di questa incapacità di leggere la storia di Gerusalemme come storia complessa è quello che è successo sulla Spianata delle Moschee, e tutto attorno allo spazio che in arabo si chiama Haram al Sharif. Eppure, comprendere la questione della Spianata delle Moschee ci direbbe molto riguardo al significato urbano della piazza. E cioè al suo significato politico.
Tra tutte le delicate questioni alla base del conflitto tra israeliani e palestinesi, la sovranità e il controllo dei luoghi santi di Gerusalemme sono, come minimo, le questioni più evidenti. Poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2016, è scoppiata una dura controversia in sede Unesco in occasione della presentazione del documento che deplorava la politica israeliana sulla Spianata delle Moschee e intorno al terzo luogo santo dell’islam. Solo il più recente documento sulle violazioni di Israele in un’area non solo delicatissima dal punto di vista delle sensibilità religiose e politiche, ma che implica anche le relazioni tra Israele e la Giordania.
Quella occasione, che ha mostrato anche le posizioni ondivaghe di molti Stati europei, è servita a confermare tutte le difficoltà – si direbbe l’impossibilità – circa le ipotesi di trasferire il controllo militare e politico della Città Vecchia dalle autorità israeliane, in quanto potenza occupante, alla comunità internazionale e ai rappresentanti religiosi di tutte le fedi. L’ipotesi dell’internazionalizzazione dei luoghi santi di Gerusalemme, insomma, si infrange sull’impossibilità di imporre a Israele un trasferimento di potere. Non solo di sovranità. La cronaca di quei giorni dimostra, dunque, in modo cristallino quanto sia ardua la protezione dei luoghi santi. La reazione durissima del governo israeliano a guida Netanyahu, e della sua diplomazia, ha avuto come contraltare le dichiarazioni imbarazzate di molti governi occidentali contro un documento che, comunque, era stato presentato all’Unesco dai paesi membri.
Eppure, l’iscrizione della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue antiche mura nella lista del patrimonio dell’umanità dell’Unesco nel 1981, dietro richiesta della Giordania, è molto chiara nel definire quanto il sistema dei luoghi santi sia un oggetto fragile, per  “il valore che Gerusalemme rappresenta per le tre religioni dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam”. Il rappresentante della Giordania era andato ben oltre, allora, nel descrivere la complessità del luogo, sottolineando che “è sempre stato nostro convincimento che la Città Vecchia di Gerusalemme costituisca un complesso storico che deve essere considerato nella sua totalità come un insieme coerente”.
La destra israeliana, ormai difficile da confinare nelle ali estreme e, anzi, parte integrante del governo Netanyahu, segue invece una precisa strategia ‘di potenza’ riguardo al futuro dei luoghi santi, in particolare di quelli musulmani. Il tentativo evidente è quello di hebronizzare lo Haram al Sharif, la Spianata delle Moschee, considerata dall’ebraismo il luogo in cui, fino alla distruzione del Secondo Tempio da parte degli occupanti Romani, si trovava il Monte del Tempio. Il cuore della fede. Il sacro. L’obiettivo dei gruppi della destra radicale è anche di realizzare un settore dedicato alla preghiera dei fedeli ebrei, e ripetere con l’andare del tempo la partizione tra la Moschea Ibrahimi e la Tomba dei Patriarchi. L’incremento esponenziale delle visite di gruppi radicali ebraici sulla Spianata, protette da ingenti apparati di sicurezza israeliani, è la dimostrazione che la vita dentro la Città Vecchia si fa ogni giorno più tesa.
La situazione attuale nella Città Vecchia di Gerusalemme mostra chiaramente cosa ci si può aspettare nel futuro molto prossimo, soprattutto dopo il viatico espresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha dato un sostanziale e formale via libera alle posizioni israeliane. Quello che era scritto nella decisione del Comitato per la difesa del patrimonio dell’Umanità dell’Unesco dell’ottobre 2016 è la descrizione di un presente già carico di tensione, e di un futuro ancor più difficile. Un presente che parla dell’aumento della violenza delle forze di sicurezza israeliane contro il diritto dei palestinesi di fede musulmana di accedere alla moschea di Al Aqsa per pregare e, contestualmente, per mantenere lo status quo sulla Spianata; dell’incremento delle provocazioni da parte degli estremisti e dei coloni israeliani che tentano di entrare sulla Spianata, nonché la sempre più frequente chiusura delle moschee, soprattutto in occasione delle festività ebraiche, invocando ragioni di sicurezza.
Il controllo israeliano di Gerusalemme, amministrativo e militare, è totale. Lo è da molto tempo. Eppure nessuno si sarebbe aspettato quello che è successo nello scorso luglio, quando la città è stata imbrigliata nella protesta pacifica e civile dei palestinesi. I fatti: tre palestinesi con cittadinanza israeliana hanno compiuto il 14 luglio scorso un attentato sulla Spianata delle Moschee, uccidendo due poliziotti di frontiera israeliani (della minoranza drusa). Dopo l’attentato, Israele aveva subito rafforzato le misure di sorveglianza e di sicurezza, installando attorno alla Spianata videocamere di sorveglianza, tornelli, metal detector. Senza alcun negoziato con il Waqf, l’organismo amministrativo-patrimoniale islamico. Il Waqf ha immediatamente chiesto ai fedeli di boicottare l’ingresso sorvegliato alla Spianata delle Moschee per opporsi a un profondo e unilaterale cambiamento dello status quo della Spianata, in area occupata. Una volontaria assenza dalla Spianata delle Moschee, in un gesto di disobbedienza nazionale su cui occorrerebbe riflettere di più per comprendere le dinamiche interne alla società palestinese gerosolimitana.
Dopo giorni di proteste di massa pacifiche, Israele ha dovuto cedere alle pressioni e rimuovere i nuovi sistemi di sorveglianza, pur conservando quello che già aveva: il controllo militare degli accessi alla Spianata. Solo allora, il Waqf ha chiesto ai fedeli di tornare ad Al Aqsa.
I palestinesi hanno considerato quella protesta come una vittoria. L’unica nel corso di molti anni. E obiettivamente si può affermare che le dimostrazioni serrate e compatte di luglio sono state un successo, una forma di protesta pacifica che ha messo in forte imbarazzo il governo israeliano. La protesta di Al Aqsa del 2017 è stata, infatti, una protesta con pochissimi precedenti, perché ha avuto una forte connotazione civile, accanto e forse ben oltre quella religiosa. Nella percezione gerosolimitana, Al Aqsa è un simbolo che ha a che fare molto di più con la dimensione nazionale, civile, di identità popolare,  che con una dimensione legata solo a una precisa fede. Al Aqsa è il cuore, il fulcro della Città, perché nella storia e nella memoria collettiva quella che noi chiamiamo oggi la Città Vecchia era ‘La Città’ nella sua totalità. Non è un caso che i video e le testimonianze di quei giorni ci abbiano mostrato, nelle manifestazioni, la presenza tra chi protestava di palestinesi cristiani. È ancor più importante notare, però, che è stata la parte laica della società palestinese di Gerusalemme a partecipare in massa alla protesta assieme ai fedeli più devoti.
Quarta  parte – RIDEFINIZIONE SPAZIALE DELLA CITTÀ IN SE STESSA
Gerusalemme ha più geografia che storia, oggi. Anche quando parliamo della città nella sua dimensione complessiva.
Un tempo, e per tanti secoli, Gerusalemme e la Città Vecchia erano lo stesso spazio urbano. I due concetti, i due spazi urbani si sovrapponevano. La prima immagine che i gruppi di  viaggiatori avevano della città, nel loro pellegrinaggio in Terrasanta, erano le imponenti mura del sedicesimo secolo volute da Solimano il Magnifico. Le mura, le torri, i templi. Non è più così. Tanto che oggi dobbiamo nominare la Gerusalemme di un tempo, la Gerusalemme antica, la città entro le mura, come la Città Vecchia.
Le ragioni ci sono tutte. Gerusalemme non è più la piccola città della provincia ottomana circondata da mura, così come è stata quasi fino agli ultimi decenni dell’impero turco. È diventato una città densamente popolata, e anche una città con una consistente estensione. La più popolosa città in Israele. Nel giro di un secolo, Gerusalemme è stata oggetto di una trasformazione singolare, da centro urbano tutto sommato provinciale – se paragonato ai centri importanti di allora, Damasco, Baghdad, Cairo – alla capitale di Israele non riconosciuta dalla comunità internazionale. Una trasformazione così profonda, però, è avvenuta solo perché ha avuto come origine e ragione il conflitto israelo-palestinese. Senza la necessità di controllare la città, i suoi confini, la sua demografia, con tutta probabilità non vi sarebbe stata una così rapida espansione. Per dare un solo dato che serve a contestualizzare il cambiamento, la popolazione di Gerusalemme ha raggiunto quasi i 900mila abitanti alla fine del 2014, quasi raddoppiando i numeri del 1983.
Nella nuova configurazione di Gerusalemme, dunque, la Città Vecchia non è più la Città nella sua interezza, così come è stato per secoli, quando lo spazio urbano era completamente chiuso, racchiuso dalle antiche mura. La Città Vecchia è oggi più che mai il cuore di Gerusalemme, ricolmo di templi, di luoghi santi, di negozi, tensione, e fiammate di violenza.
L’antico centro storico è compresso da periferie ormai imponenti. La Città Vecchia ha la grandezza di una tessera in un enorme mosaico di quartieri residenziali, ex villaggi palestinesi, colonie israeliane. Il paradosso della storia, però, vuole che ancora oggi, a circa un secolo e mezzo di distanza dai grandi tour dei pellegrini europei, la Gerusalemme che appare agli occhi dei viaggiatori sia una città fortificata. Antimoderna, se si vuole. La città nelle mura. Non quelle antiche, che contengono semmai ora “solo” la dimensione religiosa e turistica di uno dei luoghi più contesi del mondo. Ma la città del Terzo Millennio, ampia, racchiusa nel Muro, muro di separazione per i palestinesi e “barriera difensiva” per gli israeliani. Muro, checkpoint, ingressi vigilati, terminal…

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Gerusalemme, città senza piazze

 

 



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