Nella Striscia di Gaza vi sono timide speranze di Robert Piper
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29 novembre 2017, The IndependentLa popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà qualunque transizione reale e che la proteggerà da chi la vuole boicottare, ma ha bisogno di qualcosa che valga la pena di essere protetta e si dispera per qualche [piccolo] sostegno.
Nelle
settimane passate i primi segnali che l’isolamento di Gaza finalmente
sarebbe giunto al termine ha prodotto una debole speranza in una
popolazione civile diffidente ed esausta. Il primo dicembre sarà una
data storica per i negoziati iniziati a metà ottobre tra i due maggiori
partiti politici palestinesi, Fatah e Hamas, con lo scopo del ritorno a
Gaza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), guidato da Mahmoud
Abbas, dopo 10 anni di assenza.
L’accordo
del 12 ottobre con la mediazione egiziana ha colto di sorpresa molti
osservatori. Non tratta la questione di come Hamas verrà disarmata né
molte altri difficili problemi. Ma il primo passo deve riguardare le
pessime condizioni di vita di due milioni di civili gazawi che vivono
con poca energia elettrica, acqua o scarse prospettive per il futuro.
È ora che gli interessi dei cittadini sfiniti di Gaza abbiano finalmente la priorità rispetto a molti altri programmi in gioco.
Solamente
a poche centinaia di chilometri dai confini dell’Europa e a 50 km da
Tel Aviv, nella Striscia di Gaza due milioni di palestinesi vivono una
precaria esistenza. Dieci anni fa Gaza è stata condannata
all’isolamento, dopo la violenta presa del potere della Striscia da
parte di Hamas, l’espulsione dell’Autorità Nazionale Palestinese e
l’imposizione da parte di Israele di severe restrizioni intorno a Gaza.
Nel decennio successivo gli abitanti di Gaza sono stati più volte
coinvolti in vari conflitti – tra i due maggiori partiti palestinesi,
Hamas e Fatah, per il controllo della Striscia e tra Hamas e Israele,
sfociati periodicamente in ostilità aperta. Sono anche stati coinvolti
[dal conflitto] tra Hamas e l’Egitto, con le sue preoccupazioni per la
sicurezza del Sinai e dalla grande cautela in merito ai 12 km di confine
in comune, e tra Hamas e i donatori internazionali, la cui legislazione
anti terrorismo pone dei limiti al genere di aiuti che possono essere
inviati a Gaza.
Ciascuno
di questi conflitti ha, in un modo o in un altro, prodotto un’ulteriore
sofferenza ai civili e una graduale “decrescita” dell’economia gazawi.
In questo periodo la disoccupazione è salita dal 30 al 42% .IL delicato
bacino acquifero di acqua sorgiva è stato eccessivamente sfruttato ed è
divenuto non potabile al 96%. L’offerta di energia elettrica si è
aggirata intorno alle 8-12 ore al giorno ed è crollata alle 2-3 ore
all’inizio di quest’anno dopo che le tensioni tra Hamas e Fatah sono
arrivate al loro apice. I giovani hanno perso ogni speranza dal momento
che la disoccupazione giovanile è arrivata al 65%. Un’ infrastruttura
sanitaria precaria ha visto in meno di 10 anni il tasso di sopravvivenza
del cancro al seno cadere dal 59 al 46%.
Ma
queste cifre non colgono l’impatto meno tangibile di dieci anni di
isolamento. Israele permette ogni giorno solo a pochi, principalmente
malati, imprenditori e volontari l’ingresso e l’uscita da Gaza
attraverso i suoi valichi. Il valico egiziano di Rafah raramente viene
aperto, fino a ora solo per 30 giorni quest’anno. La marina israeliana
pattuglia rigidamente le acque al di fuori della costa di Gaza. Il
governo palestinese non si vede da nessuna parte.
Il
sentimento prevalente tra i gazawi è quello di essere completamente in
trappola. Con la continua presenza visibile di un ricco Paese dell’OCSE
[Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ndt.] pochi
chilometri lungo la spiaggia, sotto forma di un impianto di
desalinizzazione e di fornitura di energia nella città israeliana di
Ashkelon che può produrre energia e acqua sufficienti da soddisfare ogni
gazawi 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana e anche di più.
I gazawi sognano di poter uscire per cure sanitarie, studio, funerali e
per prendere una boccata di libertà.
In
base agli accordi di ottobre i ministri dell’ANP con sede a Ramallah
hanno cominciato a visitare regolarmente Gaza. Ai primi di novembre
l’amministrazione dei valichi, dove si raccolgono le tasse, è stata
trasferita da Hamas all’ANP. Da allora nelle [successive] settimane gli
impiegati pubblici assunti prima del 2007 hanno cominciato a riprendere
le loro precedenti mansioni. Azioni potenzialmente destabilizzanti da
parte di sabotatori, quali il tentativo di assassinare il capo della
sicurezza di Hamas oppure la scoperta di un altro tunnel costruito da
militanti da Gaza per entrare in Israele, non sono stati in grado di
ostacolare il processo [di riconciliazione].
Ma
per l’uomo della strada gazawi da questo storico accordo non non è
scaturito nessun cambiamento concreto. L’offerta di energia elettrica
oggi si aggira tra le quattro e le sei ore al giorno. Gli ascensori
ancora non funzionano in questa paesaggio urbano di grattacieli, eccetto
quando qualcuno mette in funzione i generatori. Il valico di Rafah
rimane praticamente chiuso, anche se è rimasto aperto l’altra settimana
per pochi giorni. Centinaia di pazienti che hanno urgente bisogno di
cure mediche fuori da Gaza, molti per una cura anti cancro, aspettano
sia l’approvazione della sicurezza israeliana sia quella per il
pagamento delle spese di Ramallah [cioè del governo dell’ANP, ndt.]. Una
spedizione di medicinali mandata dall’ANP nella prima metà di novembre è
stato il primo segnale concreto che l’aiuto potrebbe essere in arrivo.
Nelle
prossime settimane verranno alcune fondamentali verifiche. Il prossimo
problema urgente sarà chi pagherà i circa 40.000 impiegati di Gaza
assunti fin dalla presa del potere del 2007 – migliaia di dottori,
insegnanti, infermieri, ma anche tra loro poliziotti. Presumibilmente
questioni sempre più complesse, quali l’integrazione nel lungo periodo
degli impiegati pubblici pre e post 2007, le armi, le risorse militari
di Hamas, i controlli della sicurezza, le elezioni, qualche forma di
governo unitario, procederanno con difficoltà nei loro programmi. Nel
frattempo le aspettative e le frustrazioni aumenteranno, con un maggior
rischio [di fallimento] per il precario processo.
La
popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà
qualunque cambiamento reale e che lo proteggerà da chi vi si oppone, ma
ha bisogno di qualcosa che valga la pena di proteggere e si dispera per
qualche [piccolo] sostegno. Primo, hanno bisogno della libertà di
movimento per potere lasciare Gaza e ritornarci quando vogliono.
Secondo, hanno bisogno di energia elettrica almeno 12 ore al giorno.
Terzo, occorre ristabilire le indennità dei dipendenti della pubblica
amministrazione e rendere stabili i salari, almeno per quegli impiegati
che prestano davvero servizi e da cui la gente dipende.
Tutti
questi provvedimenti richiedono una dirigenza palestinese, ma non può
essere gestita solo dall’ ANP -Israele, Egitto e la comunità
internazionale devono fare la loro parte. Infatti un alleggerimento
delle restrizioni israeliane sulla movimentazione delle merci dentro e
fuori Gaza è il prerequisito per rivitalizzare un’economia morta e
darebbero un importante segnale alla gente di Gaza. In parole povere i
colloqui al Cairo devono urgentemente tradursi in un miglioramento delle
condizioni di Gaza.
Robert Piper is the UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory
Robert
Piper è il Coordinatore degli Aiuti Umanitari e delle Attività di
Sviluppo nei Territori Occupati Palestinesi delle Nazioni Unite. (UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory)
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(traduzione di Carlo Tagliacozzo)
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