Giorgio Bernardelli : Gerusalemme capitale, la vittoria dei cristiani sionisti

 
 
 
 
Dietro alla scelta di Trump l’ascesa del movimento evangelical che nella Città Santa un’ambasciata ce l’ha già dal 1980. E il cui leader ieri sera twittava: «C’è speranza per un futuro migliore in Cristo»
t.co
 
 
Giorgio Bernardelli
gerusalemme
È stato tra i primi, ieri sera, a commentare entusiasta la mossa di Donald Trump. Appena arrivata la dichiarazione con il «riconoscimento ufficiale» di Gerusalemme come capitale di Israele, John Hagee ha fatto diffondere sui social network il suo video-commento: «Il presidente Trump ha mantenuto la promessa, è entrato nell’immortalità politica. Quanto ha fatto oggi sarà celebrato in eterno». E per chiudere in bellezza più tardi ha twittato: «C’è speranza per un futuro migliore in Cristo».

Non si capisce fino in fondo la scelta compiuta da Donald Trump se nell’equazione tra Washington e Gerusalemme non si inserisce anche la variabile dei cristiani sionisti. Ovvero quella componente del mondo evangelical americano che è stata tra i sostenitori più decisi di Trump nella campagna elettorale e che l’ha convinto a rompere gli indugi su Gerusalemme. John Hagee - 77 anni, fondatore e pastore di riferimento della Cornestone Church, mega chiesa di San Antonio in Texas - è uno dei nomi più influenti in questo mondo. Una corrente radicata nella Bible Belt, l’America profonda nella quale “The Donald” ha costruito il suo successo; ma anche una voce ben presente in quella galassia mediatica di cui il Christian Broadcasting Network del telepredicatore Pat Roberson è il capofila e che viaggia di pari passo con lo straordinario successo del sensazionalismo legato all’archeologia biblica sulle tv americane.

Dentro al mondo dell’alt right - la «destra alternativa» che ha trovato in Trump il suo paladino - i cristiani sionisti portano una visione teologica ben precisa: una lettura della Bibbia in cui lo Stato di Israele e la sua vittoria nella Guerra dei sei giorni nel 1967 hanno un significato anche apocalittico. Per loro sostenere il governo Netanyahu significa molto più di un semplice appoggio politico all’alleato di sempre in Medio Oriente: il «miracolo» della Gerusalemme terrena di oggi - mai così grande e apparentemente splendente da duemila anni a questa parte - per i cristiani sionisti anticipa l’era del ritorno finale di Gesù.

Per capire quanto pesi questa componente sono interessanti le risposte ad un sondaggio realizzato nel 2013 dal Pew Research Center sul sostegno a Israele negli Stati Uniti: da quei dati emergeva in maniera chiara che, se si prendono da soli i «white evangelical» - i bianchi che frequentano le chiese protestanti -, la fedeltà è più forte persino rispetto a quella degli ebrei americani. Alla domanda se l’Israele di oggi vada identificato con la terra data da Dio al popolo ebraico l’82% dei «white evangelical» ha risposto di sì, contro il 52% degli ebrei che si dichiarano religiosi. Solo il 42% dei primi, poi, rispondeva affermativamente alla domanda sulla possibilità di una coesistenza pacifica tra israeliani e palestinesi.

Questo mondo la sua ambasciata a Gerusalemme ce l’ha già dal 1980, proprio l’anno in cui la Knesset votò la legge sulla «capitale unica e indivisibile». L’International Christian Embassy si trova a Katamon, uno dei quartieri residenziali ebraici della parte ovest della città. È il punto di riferimento per le migliaia di fedeli che i cristiani sionisti portano in Terra Santa; in particolare ogni anno organizzano un pellegrinaggio in concomitanza con la festività ebraica di Sukkot, con tanto di cerimonie pubbliche pro Israele a Gerusalemme. E dopo una prima fase di sospetto per via della loro visione teologica, da alcuni anni la destra nazionalista israeliana li ha eletti a propri alleati. Folgorati da questo sostegno senza se e senza ma (insediamenti compresi), a differenza dei distinguo che invece esistono dentro all’ebraismo americano. La consacrazione definitiva, nel settembre scorso, è stato un raduno a Gerusalemme di un centinaio di giornalisti legati a emittenti dei cristiani sionisti, provenienti non solo dagli Stati Uniti, ma anche dal Brasile e dall’Africa. Netanyahu ha voluto incontrarli personalmente rivolgendo loro un discorso in perfetto stile telepredicatore.

Quello di ieri è stato, dunque, il loro trionfo negli Stati Uniti. E la sconfitta delle chiese evangelical tradizonali, schierate per una soluzione politica negoziata del conflitto israelo-palestinese. Che è poi la posizione anche del piccolo gruppo delle comunità evangeliche della Terra Santa, formate da cristiani arabi e rappresentate dal vescovo Mounib Younan, fino a pochi mesi fa presidente della Federazione Luterana Mondiale. Anche se va aggiunto che - proprio in questi giorni - il sito Christianity Today ha pubblicato un sondaggio interessante sui giovani evangelical americani e Israele. I risultati mostrano che, in realtà, i millennial sono molto più tiepidi sull’argomento rispetto ai loro genitori: 4 su 10 si dichiarano sostanzialmente indifferenti alla sorte dello Stato ebraico. Senza la variabile «fine dei tempi», il successo dei cristiani sionisti non è detto che sia destinato a durare così a lungo.
 
 
 
 
 

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