Alberto Negri :[L’analisi] Dalle armi di distruzione di massa dell’Iraq a Biden. Ecco chi ha inventato la madre di tutte le bufale
Fu il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, a costruire le prove
notizie.tiscali.it
Dagli Stati Uniti arrivano, con una
certa regolarità, “bufale” con il marchio di fabbrica. Ma la madre di
tutte le “fake news” fu certamente la storia delle presunte armi di
distruzione di massa del dittatore iracheno Saddam Hussein. Quelle armi,
che dovevano giustificare la guerra del 2003, non furono mai trovate e
hanno continuato a fare vittime molti anni dopo.
Come nascono le “bufale” americane
compresa probabilmente quella dell’ex vicepresidente Joe Biden sulle
interferenze russe in Italia? È il novembre 2015 quando France 5, canale
pubblico di informazione, invia una giornalista a intervistare Ahmad
Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo la
caduta di Saddam Hussein nel 2003: Time gli dedicò allora una cover
story intitolata al “George Washington iracheno”. La parabola politica
di Chalabi è nota, un po’ meno chiaro è come contribuì alla guerra e
persino la sua fine lascia più di qualche dubbio.
Fu lui fu il grande ispiratore della madre di tutte le bufale:
le armi di distruzione di massa irachene. L’intervista con France 5 si
rivela laboriosa. La giornalista alla fine riesce a ottenere il
sospirato incontro: è il tardo pomeriggio del 2 novembre del 2015. Le
domande sono riferite quasi tutte a una questione. Come fu costruito il
dossier americano che imputava a Saddam il possesso di un arsenale
chimico e biologico che non fu mai trovato e costituì una delle basi
legali all’intervento militare che ha segnato l’inizio della
disgregazione del Medio Oriente?
Quando la tv francese
mi ha raccontato la storia di questa intervista ha ovviamente sollevato
il mio interesse. Come inviato seguo sul campo gli eventi mediorientali
da oltre 35 anni e in Iraq ho trascorso molto tempo, in particolare
oltre cinque mesi di fila tra la fine del 2002 e la primavera del 2003
quando cadde il regime baathista.
L’arsenale di Saddam
era materia di articoli quasi quotidiani. Eravamo inondati da centinaia
di pagine di rapporti del dipartimento di Stato, del Pentagono di think
tank Usa e britannici. Faldoni enormi, densi di dati e di riferimenti:
per sfogliarli ogni giornalista all’epoca spese intere settimane. A
Baghdad l’arsenale proibito di Saddam si “materializzò” davanti agli
occhi dei reporter, come in un gioco di prestigio. Squadre di ispettori
dell’Onu percorrevano l’Iraq alla ricerca di prove. Nella capitale
sbucavano su jeep bianche con la bandiera delle Nazioni Unite, entravano
negli edifici del regime e ne uscivano con montagne di incartamenti.
Erano quelle le prove?
Talvolta i giornalisti erano invitati a verificare le accuse.
Fu così che un giorno andai a Falluja dove in una spianata sassosa si
potevano vedere delle strutture di metallo assai sghembe, che sembravano
disegnate un geometra distratto: ci fu detto che erano rampe di lancio
di missili da armare con testate chimiche. Eppure i famosi Scud di
Saddam, sottoposto a sanzioni da oltre 12 anni, dovevano essere quasi
tutti spariti da tempo. Infatti durante la guerra non vennero mai
usati.
Le accuse potevano sembrare credibili.
Nel 1988 avevo visto i sopravvissuti di Halabja, la popolazione curda
irachena colpita dai gas di Baghdad che avevano fatto cinquemila morti.
Ricordavo benissimo che allora nessuno aveva rivolto alcuna accusa al
regime perché combatteva contro l’Iran di Khomeini.
Per costruire delle menzogne credibili
serve sempre un fondo di verità e Saddam aveva un fedina piuttosto
lunga che non deponeva a suo favore. Il regime negava tutto. Nel
febbraio del 2003, mentre aspettavamo l’attacco americano, il braccio
destro di Saddam, Tarek Aziz, che avevo incontrato diverse volte, mi
invitò nel suo ufficio. Davanti alla scrivania aveva una montagna di
carte da firmare mentre la tv, sintonizzata su Cnn, trasmetteva il
discorso del segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite: stava
mostrando le prove della famosa “pistola fumante”, le foto satellitari
delle armi di distruzione di massa.
Chi gliele aveva date?
Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper,
lo stesso che come direttore della Nsa molti anni dopo ha portato le
prove dell’interferenza degli hacker russi nelle elezioni presidenziali
americane.
Forse anche Joe Biden,
l’ex vicepresidente americano, si è servito da lui per scrivere
l’articolo su “Foreign Affairs” sui presunti tentativi d'ingerenza della
Russia nell'esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016,
aggiungendo che Mosca ora “sta aiutando la Lega e il Movimento 5 Stelle
in vista delle prossime elezioni parlamentari”.
Brava persona Biden
ma non si è neppure accordo che l’ex presidente del Consiglio Renzi
andò da Obama alla Casa Bianca per farsi appoggiare nel referendum
costituzionale: si vede che le interferenze degli altri sono sempre
peggiori delle proprie. Un po’ sprovveduto però Biden deve esserlo. Da
vicepresidente Usa in un discorso accusò il leader turco Erdogan di
essere complice dell’Isis. Poi dovette scusarsi e nell’agosto 2016 andò
ad Ankara dove lui stesso lanciò l’ultimatum ai curdi siriani di
ritirarsi a Est dell’Eufrate, cioè minacciò ci colpire i più strenui
alleati degli Usa nella lotta al Califfato e nell’assedio di Raqqa.
Ma torniamo in Iraq.
Tarek Aziz, allora, continuò a sfogliare le carte senza alzare lo
sguardo alla tv e gli chiesi cosa ne pensasse del discorso di Powell.
“Credo – disse – che ci faranno la guerra anche se gli consegneremo
l’ultimo dei nostri kalashnikov”.
Come è stato possibile costruire il dossier contro l’Iraq
di Saddam? “Semplice – ha risposto Chalabi alla giornalista di France 5
– gli americani già nel 2001-2002 mi chiesero riferimenti e persone che
avrebbero potuto essere utili a costruire un’accusa sulle armi di
Saddam e io ho fornito agli Stati Uniti questi elementi: non mi sento
colpevole, sono stati gli americani poi a trarre le conclusioni”.
Ora sappiamo, anche in base al rapporto di John Chilcot,
presidente della commissione d’inchiesta britannica, che l’intervento
militare Usa in Iraq del 2003, sostenuto caldamente da Tony Blair, era
basato su falsi rapporti. La giornalista di France 5 poteva ritenersi
soddisfatta: l’intervista a Chalabi era costata mesi di attesa.Il giorno
seguente all’incontro con Chalabi, il 3 novembre 2015, stava esaminando
nella sua stanza d’albergo a Baghdad il materiale raccolto.
La notizia arrivò all’improvviso:
Chalabi era stato appena trovato morto, apparentemente vittima di un
attacco di cuore. Nel filmato ammetteva la sua complicità nella raccolta
delle false accuse contro Saddam sulle armi di distruzione di massa e
faceva dei nomi: ma questa era stata la sua ultima intervista. Alla
giornalista non restò che correre in aereoporto e dileguarsi con il
primo volo utile per Beirut. Di solito questi non sono buoni segnali.
La madre di tutte le bufale
è nata dentro al sistema politico e di propaganda anglo-americano che
non ha mai smesso di produrre la “verità del momento”. E gli altri, come
i russi o cinesi, hanno cominciato a imitarlo. Non solo, ha continuato a
sostenerla e oggi il sistema che produce bufale può godere dell’aiuto
dei social network, di Facebook, di Twitter, di centinaia di siti e blog
le cui notizie sono spesso false o inverificabili.Non c’è più bisogno
di inviare come un tempo ai giornalisti voluminosi faldoni che davano al
tutto una parvenza di serietà: basta andare sul web e la verità del
momento si diffonde come un virus.
Le fake news americane
- come del resto quelle inglesi, francesi, russe o italiane - non
conoscono vergogna o pentimenti. Donald Rumsfeld, l’ex segretario di
stato americano, interpellato sulle armi di distruzione di massa in Iraq
e la mancanza di fondamento di quelle accuse, ha proclamato: “L’assenza
di una prova non è la prova di un’assenza”. La madre delle bufale non
si stanca di lavorare.
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