Ilan Pappé :LA PIÙ GRANDE PRIGIONE DELLA TERRA
Di Ilan Pappé
26 novembre 2017
La Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi, ha dato origine all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Israele si è rivenduto la notizia della guerra come se fosse stata casuale, ma nuovi documenti storici e verbali trovati negli archivi dimostrano che Israele era ben preparata a questa.
Nel 1963, dei personaggi delle amministrazioni israeliane militari, legali e civili si sono iscritti a un corso all’Università Ebraica di Gerusalemme, per programmare un piano completo per occuparsi dei territori che Israele avrebbe occupato 4 anni dopo e per gestire un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.
La motivazione era stata il fallimento del modo in cui Israele si occupava dei palestinesi a Gaza nella sua occupazione di breve durata nel periodo della crisi di Suez del 1956.
Nel maggio 1967, mesi prima della guerra, i governatori militari israeliani hanno ricevuto delle scatole contenenti istruzioni legali e militari sul modo di controllare le città e i villaggi palestinesi. Israele avrebbe continuato a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto il controllo e la sorveglianza dei militari.
Gli insediamenti, i posti di controllo e le punizioni collettive facevano parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappé nel libro: The Biggest Prison on Earth: A History of the Occupied Territories (La più grande prigione della terra: la storia dei territori occupati) che è un resoconto approfondito dell’occupazione israeliana.
Pubblicato nel 50° anniversari o della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il premio letterario denominato Palestine Book Award 2017, organizzato da Middle East Monitor, che sarà proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro di che cosa rivela.
Middle East Eye: In che modo questo libro sviluppa il suo precedente: La pulizia etnica della Palestina per la guerra del 1948?
Ilan Pappé:
IP: E’ certamente un seguito del mio precedente libro The Ethnic Cleansing (La pulizia etnica) che descrive gli avvenimenti del 1948. Considero l’intero progetto del Sionismo come una struttura, non soltanto come un solo evento. Una struttura di colonialismo dei colonizzatori con la quale un movimento di coloni colonizza una patria. Fino a quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena si oppone per mezzo di un movimento nazionale di liberazione, ognuno di tali periodi che considero, è soltanto una fase all’interno della stessa struttura.
Anche se The Biggest Prison è un libro di storia, siamo ancora nell’ambito dello stesso capitolo storico. Non è ancora finito. E quindi, con questa idea in mente, ci sarebbe probabilmente un terzo libro, in seguito, che considera gli avvenimenti del 21° secolo e come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione si sta attuando nella nuova era e come i Palestinesi vi oppongono resistenza.
MEE: Lei parla della pulizia etnica che è avvenuta nel giugno del 1967. Che cosa è accaduto allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo è diversa dalla pulizia etnica della guerra del 1948?
IP: Nel 1948 c’era un chiaro piano per tentare di espellere il maggior numero di palestinesi possibile. Il progetto colonialista dei coloni credeva di avere il potere di creare uno spazio ebraico in Palestina che sarebbe stato totalmente senza palestinesi. Non ha funzionato molto bene, ma ha avuto un buon successo, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che divenne lo stato di Israele, diventarono rifugiati.
Come dimostro nel libro, ci sono alcuni decisori politici israeliani che hanno pensato che forse possiamo fare nel 1967quello che abbiamo fatto nel 1948. La vasta maggioranza di questi, però, capiva che la guerra del 1967 era stata molto breve, durata 6 giorni, e allora c’era già la televisione e un buon numero delle persone che volevano espellere erano giù rifugiati dal 1948.
Penso, quindi, che la strategia non era la pulizia etnica nello stesso modo in cui era stata attuata nel 1948. Era quello che chiamerei pulizia etnica che si va incrementando lentamente. In alcuni casi hanno espulso torme di persone da certe zone come Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme, e attorno a Qalqilya. Nella maggior parte dei casi, però, hanno deciso che il governo militare e un assedio per racchiudere i Palestinesi nelle loro proprie aree, sarebbe stato vantaggioso quanto espellerli.
Dal 1967 fino a oggi, c’è una pulizia etnica molto lenta che probabilmente si estende per un periodo di 50 anni, ed è così lenta che talvolta può colpire una persona in un giorno. Se, però, si guarda al quadro completo dal 1967 fino a oggi, parliamo di centinaia di migliaia di palestinesi ai quali non è permesso di tornare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
MME: Lei distingue tra due modelli militari che usa Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi termini militari?
IP: Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare nelle città e nei villaggi palestinesi densamente popolati. Hanno suddiviso la Striscia di Gaza nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania che non è più una zona territoriale coerente.
A Gaza gli israeliani sono i custodi che escludono i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con quello che fanno all’interno.
La Cisgiordania è come una prigione all’aria aperta dove si mandano piccoli criminali cui si concede più tempo andare fuori e lavorare fuori. All’interno non c’è u regime severo, ma è comunque una prigione. Anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas, se si sposta dalla zona B alla zona C, ha bisogno che gli israeliani gli aprano la porta. Per me questo è molto simbolico, cioè il fatto che il presidente non si può muovere senza che il carceriere israeliano gli apra la gabbia.
Naturalmente c’è una costante reazione palestinese a questo. I palestinesi non sono passivi e non accettano questa situazione. Abbiamo visto la Prima Intifada e la Seconda Intifada e forse vedremo la Terza Intifada. Gli Israeliani dicono ai palestinesi, con una mentalità da gestione di carcere: se vi opponete, vi porteremo via tutti i vostri privilegi, come facciamo in prigione. Non potrete lavorare fuori. Non sarete in gradi di muovervi liberamente, e avrete punizioni collettive. Questo è il genere di parte punitiva: punizione collettiva come ritorsione.
MME: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Non le considerano parte importante della struttura coloniale di Israele, come lei descrive nel libro. Come sono cominciati gli insediamenti israeliani e la loro base era razionale o religiosa?
IP: Dopo il 1967, ci sono state due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla Sinistra a Israele. E il padre di questa mappa è stato il defunto Yigal Allon, il massimo stratega che lavorò con Moshe Dyan nel 1967 per formulare un piano di controllo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il loro principio era strategico e non molto ideologico, anche se credevano che la Cisgiordania appartenesse a Israele.
Gli interessava di più interessati assicurarsi che gli Ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che, dovunque i Palestinesi non vivono concentrati, noi possiamo stabilirci. Hanno quindi iniziato con la Valle del Giordano perché lì ci sono piccoli villaggi ma non densamente popolati come in altre zone.
Il problema per loro è stato che nello stesso momento in cui tracciavano la loro mappa strategica, emergeva un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionale di Ebrei, che non volevano insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi seguendo la mappa biblica. Avevano l’idea che la Bibbia è un libro che dice esattamente dove sono le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa indicava che gli Ebrei dovevano insediarsi tra Nablus, Hebron e Betlemme, in mezzo alle zone palestinesi.
Dapprima il governo israeliano tentò di controllare questo movimento biblico in modo che si sarebbero insediati più strategicamente, ma vari giornalisti hanno dimostrato che Shimon Peres, ministro della Difesa all’inizio degli anni ’70, decise di permettere gli insediamenti biblici. I Palestinesi in Cisgiordania avevano davanti due mappe della colonizzazione, quella strategica e quella biblica.
La comunità internazionale capisce che, secondo la legge internazionale, non importa se è un insediamento è strategico o biblico: sono illegali.
Quello, però, che è una sfortuna, è che la comunità internazionale dal 1967 ha accettato la formula israeliana che dice che “gli insediamenti sono illegali, ma è una cosa temporanea; quando ci sarà la pace ci assicureremo che tutto sia legale. Però, fino a quando non c’è la pace, abbiamo bisogno degli insediamenti perché siamo ancora in guerra con i Palestinesi.”
MME: Lei dice che “occupazione” non è la parola precisa per descrivere la realtà in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E in On Palestine, un dialogo con Noam Chomsky, lei critica l’espressione: “processo di pace”. E’ discutibile. Perché questi termini non sono precisi?
IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si inquadra una situazione può influenzare le possibilità di cambiarla.
Abbiamo espresso la situazione Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e in Israele con il vocabolario e le parole sbagliate. Occupazione indica sempre una situazione temporanea.
La soluzione dell’occupazione è sempre la fine dell’occupazione, quando le forze armate di invasione tornano nel loro paese; questa, però, non è la situazione né in Cisgiordania o in Israele, né nella Striscia di Gaza. Questa è una colonizzazione, suggerisco, anche se sembra un termine anacronistico nel 21° secolo, e penso che dovremmo capire che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha cominciato a farlo alla fine del 19° secolo e la sta colonizzando ancora oggi.
C’è un regime coloniale di coloni che controlla l’intera Palestina in modi diversi. La controlla dall’esterno nella Striscia di Gaza. Nella Cisgiordania la controlla in maniera diversa nella zona A, B e nella zona C. Ha politiche differenti verso i Palestinesi nel campo profughi, dove non permette ai rifugiati di ritornare. Questo è un altro modo di mantenere la colonizzazione, non permettendo alle persone che erano state espulse, di ritornare. Fa tutto parte della stessa ideologia.
Penso, quindi, che le parole: processo di pace e occupazione, quando sono messe insieme, creano la falsa impressione che tutto quello che è necessario, è che i militari israeliani se ne vadano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, e che ci sia una pace tra Israele e la Palestina futura.
Ora, le forze armate israeliane non sono nella Striscia di Gaza e non sono nella zona A. Sono appena nella zona B dove non è necessario che siano. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è di gran lunga peggiore di quella che c’era prima degli Accordi di Oslo del 1993.
Il cosiddetto processo di pace ha messo in grado Israele di fare ulteriore colonizzazione, ma questa volta con l’appoggio internazionale. Suggerisco quindi, di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco che si parli di cambiare il regime legale che governa la vita degli Israeliani e dei Palestinesi.
Penso che dovremmo parlare di uno stato dove c’è l’apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo cercare che cosa sostituisce l’apartheid. Abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo di sostituire l’apartheid è con un sistema democratico. Una persona, un voto o almeno uno stato bi-nazionale. Penso che questo sia il genere di parole che dovremmo cominciare a usare, perché se continuiamo a usare le parole vecchie, continuiamo a perdere tempo e non cambieremo la realtà sul terreno.
MEE: Che cosa ha in serbo il futuro per il dominio militare israeliano sui Palestinesi? In luglio rivedremo un movimento di disobbedienza civile come quello di Gerusalemme?
IP: Penso che ci sarà disobbedienza civile non soltanto a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi che vivono in Israele. La società stessa non accetterebbe per sempre questo genere di realtà. Non so quali mezzi userà. Possiamo vedere che cosa accade quando non si ha una chiara strategia dall’alto che i singoli decidono di fare la loro personale guerra di liberazione.
C’era qualcosa di davvero notevole nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza che avevano imposto ad Haram al-Sharif (Il monte del Tempio*). Penso che questo possa essere il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non sia in tutto il luogo ma in posti diversi.
La resistenza popolare continua sempre in Palestina. I media non ne parlano, ma ogni giorno la gente protesta contro il muro della separazione, la gente dimostra contro l’espropriazione della terra, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto è sospesa.
Nella foto: Ilan Pappé.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Middle East Eye
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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