Alberto Negri I jihadisti fanno tremare l’Egitto di Al Sisi
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Non ci si poteva illudere che la
caduta di Raqqa e la sconfitta dell’Isis potessero rappresentare la fine
del terrorismo e del jihadismo nel mondo arabo-musulmano neppure in
Occidente. Il massacro alla moschea sufi del Sinai è l’ennesimo
promemoria insanguinato.
In Sinai - diventato dopo la caduta dei Fratelli Musulmani nel 2013
una sorta di Afghanistan affacciato sul Mediterraneo e il Mar Rosso, a
cavallo di un’area altamente sensibile, al confine con Palestina e stato
ebraico, strategica per il passaggio di pipeline e gasdotti - ne
abbiamo avuto una drammatica prova con l’attentato che ieri ha fatto
almeno 235 morti alla moschea di Bir El Abd, a 60 chilometri da El
Airish, capitale del Sinai settentrionale una delle aree più ribollenti
del territorio egiziano non lontano dalla Striscia palestinese di Gaza.
Non si cono state ancora rivendicazioni ma la moschea colpita con
ordigni esplosivi artigianali e raffiche di mitra è frequentata dalla
tribù Sawarka, la maggiore del nord del Sinai conosciuta per la sua
collaborazione con l’esercito nella lotta contro l’Isis. In un video
recente lo “Stato islamico del Sinai”, organizzazione affiliata dal 2014
al Califfato, aveva avvertito la popolazione a non cooperare con le
forze di sicurezza. Ma in Sinai non c’è soltanto l’Isis, costituito
dalle milizie, circa 1.500 uomini, di una formazione precedente, Ansar
Beit el Maqdis: la penisola è un concentrato di formazioni jihadiste,
alcune delle quali in concorrenza con il Califfato e affiliate ad Al
Qaida, come quella dei Morabitun, capeggiata da Hisham Ashnawi, ex
ufficiale dell’esercito egiziano. In Sinai si replica uno scenario già
visto in Afghanistan dove i talebani e i gruppi legati ad Al Qaida hanno
dovuto affrontate la concorrenza dei seguaci del Califfato.
L’obiettivo dei jihadisti è di far implodere un paese come l’Egitto
centrale nelle strategie politiche ed economiche dell’intera area
mediterranea e mediorientale, attraverso l’esportazione della violenza
indiscriminata e di tattiche settarie già adottate in Iraq e in Siria.
Ma uno degli aspetti più sconcertanti, a pochi mesi dalle elezioni
presidenziali del 2018, è che il generale Al Sisi sta mostrando grandi
incertezze nella lotta al terrorismo. Soltanto giovedì, davanti al
parlamento, il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar aveva
rassicurato: «La situazione nel Sinai è stabile, i cittadini che vivono
nella penisola adesso sono più sicuri».
Il terrorismo in realtà colpisce non solo il Sinai ma tutto il Paese.
Lo scorso 20 ottobre, all’oasi di Bahariya, 50 militari sono stati
trucidati in una zona desertica a sud-ovest del Cairo, a metà strada tra
il corso del Nilo e il confine libico. L’area Bahariya occupa una
posizione strategica per la vicinanza al poroso confine libico e il
passaggio delle rotte dei traffici illeciti nella più vasta regione del
Sahara-Sahel, da dove si riforniscono i gruppi ribelli egiziani.
Se è vero che l’Egitto condiziona le mosse del generale Khalifa Haftar, anche la Libia è una spina nel fianco del Cairo.
Il Wilayat Sinai - emanazione locale dello Stato islamico - rimane
comunque la principale minaccia, responsabile della maggior parte degli
attacchi lanciati in questi anni. Negli ultimi mesi i jihadisti hanno
moltiplicato i loro obiettivi: non solo militari, agenti della polizia e
i cristiani copti ma anche i musulmani che ritengono
“collaborazionisti” dello stato centrale.
E ora, dopo la debàcle dell’Isis in Siria e in Iraq, c’è anche il
ritorno dei foreign fighters in un’area, quella del Sinai, dove oltre
alla presenza del Califfato ci sono i gruppi qaidisti collegati con i
jihadisti dello Yemen e in Africa, fedeli alla formazione fondata da
Osama bin Laden.
L’Egitto del generale Al Sisi non è mai uscito dallo stato
d’emergenza dopo il colpo di stato del 2013 e deve affrontare tre sfide
in contemporanea: il Califfato nel Sinai, i Fratelli Musulmani
nell’Egitto centrale insieme ai gruppi terroristici jihadisti, i ribelli
islamici egiziani e libici alle frontiere occidentali. Gruppi diversi,
per come agiscono e per le diverse finalità politiche, ma che hanno in
comune l’obiettivo di far collassare il regime trasformando l’Egitto in
un Paese confessionale. Al generale Al Sisi non sono bastate le derive
autoritarie, i faraonici piani di raddoppio del canale di Suez e qualche
timida ripresa del turismo, per avere in pugno il Paese: da un certo
punto di vista è ancora un Raìs dimezzato, con controllo assai labile
del Paese e degli stessi apparati di sicurezza.
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