Video : Fulvio Scaglione: "E' scontro politico tra nani della politica, incattiviti". Articoli sulla Catalogna
Dopo giorni di assordante silenzio, e dopo molte ore
di nascondino rispetto alle violenze consumatesi a Barcellona, l’Unione
europea ha battuto un colpo sul travaglio della Spagna e della
Catalogna. Ed è stato, ovviamente, un colpo a favore del governo
centrale di Madrid. Nessuna speranza per la «mediazione internazionale»
chiesta da Carles Puigdemont, presidente della Comunità autonoma di
Catalogna, al contrario piena fiducia nell’operato del premier spagnolo
Mariano Rajoy. Non solo: il referendum catalano è irricevibile perché
«illegale» e l’intera questione resta «un affare interno della Spagna».
Ai catalani un contentino sotto forma di un appello a evitare l’uso
della forza e un invito a passare dallo scontro al dialogo.
Detto questo, la Ue ancora una volta ha brillato per l’assenza. Nessuno dei suoi dirigenti, men che meno Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha voluto metterci la faccia dopo che il pasticcio era scoppiato. Ma soprattutto nessuno da Bruxelles si è fatto vivo prima, quando un discreto intervento e un po’ di «moral suasion» avrebbero potuto stemperare un po’ di tensioni, rasserenare qualche animo e magari evitare uno scontro così duro e dalle conseguenze imprevedibili.Perché il vero problema, adesso, è che Madrid e Barcellona, Rajoy e Puigdemont sono costretti a vincere per non perdere tutto. Il governo centrale deve domare i catalani per non incentivare altri separatismi, primo fra tutti quello dei Paesi Baschi ai quali nel 2012 concesse un trattato fiscale negato alla Catalogna. A sua volta, la Comunità autonoma di Catalogna deve portare a casa qualcosa in più di quanto aveva fino a una settimana fa, per non vedersi costretta ad archiviare per sempre il sentimento e il movimento indipendentista.
Non bisognava arrivare a questo punto, ovviamente, ma ci si è arrivati. Lungo il percorso, tuttavia, una maggiore vicinanza dell’Europa alla sorte degli spagnoli sarebbe stata almeno opportuna, se non benefica. E non a caso diciamo spagnoli e non Spagna. Quello che importa, qui e ora, non è la filosofia ma il concreto benessere di milioni di famiglie di cittadini europei. Per il periodo 2014-2020 la Ue ha varato un programma che s’intitola «L’Europa per i cittadini», inteso ad avvicinare le persone alle istituzioni. Un’ottima idea. Che non funzionerà, però, se al posto di farsi avvicinare l’Europa continua a spostarsi, a schivare, in definitiva ad allontanarsi quando quei cittadini devono affrontare un problema serio e complicato. È successo fin troppo spesso, negli ultimi tempi. Non avremmo voluto che fosse anche il caso di un popolo che ha dato tanto al continente ma che ha alle spalle le memorie di una crudele guerra civile e di fronte, oggi, altri spunti di divisione. C’è una questione più europea di questa? O a fare l’Europa bastano i proclami di Macron e qualche inutile tirata sui populismi? La Spagna e la Catalogna ce lo insegnano: l’Unione si fa nelle strade, non negli uffici. E la disunione anche.
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La
Guardia Civil ha la mano pesante ma la realtà non cambia. I catalani
non sono un popolo oppresso e la Catalogna non subisce apartheid. Come
la Padania.
fulvioscaglione.com
Detto che manganellare gli anziani e sparare proiettili di gomma
contro manifestanti disarmati e pacifici è il peggio del peggio per uno
Stato che vuol dirsi democratico e moderno, resta una domanda: perché
c’è tanta solidarietà in giro verso per la causa dei catalani? Perché si
dà per scontato che loro siano i buoni e giusti e gli altri i brutti
sporchi e cattivi? Perché si dice con tanta facilità che la Catalogna ha “il diritto” di votare per chiedere l’indipendenza dallo Stato centrale spagnolo?
Questa simpatia diffusa, questo populismo di sinistra, questo sentimentalismo delle piccole patrie, affondano le radici nel più totale distacco dai fatti concreti. Primo: la Catalogna non è invasa né oppressa, al contrario. Dal 1978 vige in Spagna una Costituzione che riconosce diciassette Comunità autonome (più due città autonome: Ceuta e Melilla) e a esse concede una larghissima autonomia. Così larga che sono libere di attribuirsi le competenze che desiderano mentre lo Stato deve “accontentarsi” di quelle che le singole Comunità non hanno inserito nel proprio Statuto. Per quanto poi riguarda la Catalogna, lo Statuto regionale stabilisce con grande precisione i confini della “collaborazione” (la chiama proprio così) con lo Stato nazionale.
Secondo: la Catalogna è ricca (con il 16% della popolazione spagnola è titolare del 23% dell’apparato industriale e del 25% delle esportazioni nazionali) ma è amministrata malissimo, tanto che il suo deficit è da anni circa il doppio di quello medio delle altre regioni autonome. La mediocre politica catalana ha sfruttato per anni lo slogan “Madrid ladrona”. Nel 2012 la rottura finale con Madrid, rispetto al patto siglato nel 2006 e poi annullato dalla Corte Costituzionale, avvenne proprio sul tema della fiscalità. E l’accelerazione impressa al sentimento indipendentista negli ultimi anni dipende in larga parte non tanto dal desiderio di parlare la propria lingua o di ritornare nell’alveo di una vecchia Storia ma piuttosto dalla crisi economica, e dall’illusione che il distacco dallo Stato centrale porterebbe dritti nel Paese di Bengodi.
Ma al di là di tutto questo, c’è una considerazione ancor più ampia. Ed è questa: chi parla di “autodeterminazione dei popoli” quasi sempre non sa di che cosa parla e piglia lucciole per lanterne. Tale principio, infatti, fu enunciato dal presidente americano Woodrow Wilson nel 1919 in occasione del Trattato di Versailles. Wilson ne faceva in realtà l’arma concettuale del nascente imperialismo americano, farsi paladino delle “piccole patrie” gli serviva per scombinare i giochi delle grandi potenze europee dell’epoca, ovvero Francia e Regno Unito, e dei loro imperi coloniali.
In ogni caso, la questione dell’autodeterminazione è riservata ai popoli sottoposti a dominazione coloniale o a occupazione straniera, oppure a quelli costretti a vivere in regime di apartheid. Che c’entra la Catalogna? Votare per promuovere l’indipendenza per i catalani è al massimo un legittimo desiderio, in nessun caso un diritto.
E nel caso la Catalogna c’entrasse con l’autodeterminazione, perché non il Movimento per l’indipendenza della Sicilia e gli autonomisti sardi? Perché vedere le scritte “Il Sud Tirolo non è Italia” ci faceva venire i brividi? E perché non la Padania, che alla fin fine assomiglia più di tutti alla Catalogna e che ora tiene anch’essa il suo pseudo referendum, con il governatore Maroni impegnato a dire che una maggiore autonomia porterebbe al lombardo-veneto almeno 27 miliardi in più l’anno?
Questa simpatia diffusa, questo populismo di sinistra, questo sentimentalismo delle piccole patrie, affondano le radici nel più totale distacco dai fatti concreti. Primo: la Catalogna non è invasa né oppressa, al contrario. Dal 1978 vige in Spagna una Costituzione che riconosce diciassette Comunità autonome (più due città autonome: Ceuta e Melilla) e a esse concede una larghissima autonomia. Così larga che sono libere di attribuirsi le competenze che desiderano mentre lo Stato deve “accontentarsi” di quelle che le singole Comunità non hanno inserito nel proprio Statuto. Per quanto poi riguarda la Catalogna, lo Statuto regionale stabilisce con grande precisione i confini della “collaborazione” (la chiama proprio così) con lo Stato nazionale.
Secondo: la Catalogna è ricca (con il 16% della popolazione spagnola è titolare del 23% dell’apparato industriale e del 25% delle esportazioni nazionali) ma è amministrata malissimo, tanto che il suo deficit è da anni circa il doppio di quello medio delle altre regioni autonome. La mediocre politica catalana ha sfruttato per anni lo slogan “Madrid ladrona”. Nel 2012 la rottura finale con Madrid, rispetto al patto siglato nel 2006 e poi annullato dalla Corte Costituzionale, avvenne proprio sul tema della fiscalità. E l’accelerazione impressa al sentimento indipendentista negli ultimi anni dipende in larga parte non tanto dal desiderio di parlare la propria lingua o di ritornare nell’alveo di una vecchia Storia ma piuttosto dalla crisi economica, e dall’illusione che il distacco dallo Stato centrale porterebbe dritti nel Paese di Bengodi.
Ma al di là di tutto questo, c’è una considerazione ancor più ampia. Ed è questa: chi parla di “autodeterminazione dei popoli” quasi sempre non sa di che cosa parla e piglia lucciole per lanterne. Tale principio, infatti, fu enunciato dal presidente americano Woodrow Wilson nel 1919 in occasione del Trattato di Versailles. Wilson ne faceva in realtà l’arma concettuale del nascente imperialismo americano, farsi paladino delle “piccole patrie” gli serviva per scombinare i giochi delle grandi potenze europee dell’epoca, ovvero Francia e Regno Unito, e dei loro imperi coloniali.
In ogni caso, la questione dell’autodeterminazione è riservata ai popoli sottoposti a dominazione coloniale o a occupazione straniera, oppure a quelli costretti a vivere in regime di apartheid. Che c’entra la Catalogna? Votare per promuovere l’indipendenza per i catalani è al massimo un legittimo desiderio, in nessun caso un diritto.
E nel caso la Catalogna c’entrasse con l’autodeterminazione, perché non il Movimento per l’indipendenza della Sicilia e gli autonomisti sardi? Perché vedere le scritte “Il Sud Tirolo non è Italia” ci faceva venire i brividi? E perché non la Padania, che alla fin fine assomiglia più di tutti alla Catalogna e che ora tiene anch’essa il suo pseudo referendum, con il governatore Maroni impegnato a dire che una maggiore autonomia porterebbe al lombardo-veneto almeno 27 miliardi in più l’anno?
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Da quanto è successo e sta succedendo in Catalogna, però, emerge anche l’incredibile sprovvedutezza politica del Governo di Madrid e del suo primo ministro, Mariano Rajoy. Nel 2012 la Corte Costituzionale (lo stesso organismo che aveva dichiarato inammissibile il referendum di ieri) aveva sconfessato gli accordi siglati nel 2006 per concedere alla regione una ancor più pronunciata autonomia, accordi che erano stati peraltro approvati dai catalani. Poco dopo partì la grande crisi economica mondiale e il tema dell’indipendenza, in una Catalogna a livello regionale amministrata molto mediocremente, cominciò a funzionare anche come paravento, come una grande bandiera che nascondeva, all’insegna di «Madrid ladrona», anche gli altri problemi.
Di fronte a tutto questo il Governo centrale è rimasto inerte o quasi, convinto forse che alla fine non sarebbe successo nulla. Rajoy si deve oggi confrontare con la mezza insurrezione della polizia catalana, i Mossos de Esquadra, che hanno disobbedito agli ordini e si sono rifiutati di intervenire contro chi manifestava o voleva votare. Ma soprattutto Rajoy è riuscito a consegnare agli indipendentisti quel monopolio dell’opinione pubblica catalana che fino a ieri non avevano mai avuto. Tutti i sondaggi degli ultimi anni hanno mostrato che, a dispetto di tanto rumore, la causa separatista era lungi dal raccogliere la grande maggioranza dei favori. Adesso, dopo gli scontri, gli arresti, le cariche della Guardia Civil, le manganellate, i proiettili di gomma sparati sulla folla, chi avrà ancora il coraggio, in Catalogna, di pronunciarsi per l’unità nazionale? Chi rischierà la nomea del traditore per difendere la causa di un Governo sembrato lontanissimo dalla realtà locale e incapace di un minimo di dinamismo politico?
Con questo gran pasticcio alle spalle, diventa molto difficile prevedere ciò che potrà accadere nel prossimo futuro. Le due parti, con le loro azioni improvvide, sono riuscite a confinarsi nelle posizioni estreme. Nessun discorso sull’indipendenza per Madrid. Solo l’indipendenza, perché ogni altra ipotesi ora sarebbe una sconfitta, per Barcellona. In mezzo c’è la realtà. Dell’economia, che imporrebbe alla Spagna di considerare il ruolo fondamentale della Catalogna nel sistema produttivo nazionale e alla Catalogna di capire che produrre non è la stessa cosa di amministrare, altrimenti la Comunità non avrebbe il deficit che invece ha. E via via della cultura, della lingua, persino dei sentimenti, che nella questione specifica giocano un ruolo importante.
Da questa contrapposizione, ridicola e drammatica insieme, si potrà uscire solo con la politica. Quella che è finora mancata e che i contendenti faranno meglio a riscoprire alla svelta, prima che il pasticcio sfugga loro totalmente di mano.
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Quel
che non doveva succedere è puntualmente successo e non occorre avere
virtù profetiche per pensare che gli eventi di ieri in Catalogna
lasceranno una profonda cicatrice nella vita di tutta la Spagna. Un
referendum consultivo di nessun valore…
ecodibergamo.it
Quel che non doveva succedere è puntualmente
successo e non occorre avere virtù profetiche per pensare che gli eventi
di ieri in Catalogna lasceranno una profonda cicatrice nella vita di
tutta la Spagna. Un referendum consultivo di nessun valore concreto,
deciso dalle autorità catalane per forzare la mano a Madrid e tenere
insieme maggioranze politiche locali a dir poco eterogenee e di dubbia
efficienza, è stato annullato non dalla politica e nemmeno dalla legge
ma dall’intervento della polizia.
Centinaia i feriti per le azioni della Guardia Civil, che ha così
regalato ai disinvolti dirigenti catalani altrettanti eroi e martiri.
Nello stesso tempo, un voto che nessuna istituzione al mondo ha preso
sul serio e che, in punta di legge, non ha una sola motivazione valida,
ha spaccato un Paese cruciale per l’Europa come la Spagna e diviso una
nazione che fin dalla Costituzione del 1978, con la creazione delle
diciassette Comunità autonome (una delle quali è appunto la Catalogna)
dopo decenni di centralismo, si è dotata di una struttura
larghissimamente rispettosa delle competenze locali. Al punto che lo
Stato centrale si riserva di intervenire solo sulle materie che le
Comunità non abbiano riservato a sé nel proprio Statuto. In queste
condizioni come possono i catalani definirsi un popolo oppresso? Basta
avere un glorioso passato (si parla, peraltro, di almeno quattro secoli
fa) per decidere di smantellare il presente?Da quanto è successo e sta succedendo in Catalogna, però, emerge anche l’incredibile sprovvedutezza politica del Governo di Madrid e del suo primo ministro, Mariano Rajoy. Nel 2012 la Corte Costituzionale (lo stesso organismo che aveva dichiarato inammissibile il referendum di ieri) aveva sconfessato gli accordi siglati nel 2006 per concedere alla regione una ancor più pronunciata autonomia, accordi che erano stati peraltro approvati dai catalani. Poco dopo partì la grande crisi economica mondiale e il tema dell’indipendenza, in una Catalogna a livello regionale amministrata molto mediocremente, cominciò a funzionare anche come paravento, come una grande bandiera che nascondeva, all’insegna di «Madrid ladrona», anche gli altri problemi.
Di fronte a tutto questo il Governo centrale è rimasto inerte o quasi, convinto forse che alla fine non sarebbe successo nulla. Rajoy si deve oggi confrontare con la mezza insurrezione della polizia catalana, i Mossos de Esquadra, che hanno disobbedito agli ordini e si sono rifiutati di intervenire contro chi manifestava o voleva votare. Ma soprattutto Rajoy è riuscito a consegnare agli indipendentisti quel monopolio dell’opinione pubblica catalana che fino a ieri non avevano mai avuto. Tutti i sondaggi degli ultimi anni hanno mostrato che, a dispetto di tanto rumore, la causa separatista era lungi dal raccogliere la grande maggioranza dei favori. Adesso, dopo gli scontri, gli arresti, le cariche della Guardia Civil, le manganellate, i proiettili di gomma sparati sulla folla, chi avrà ancora il coraggio, in Catalogna, di pronunciarsi per l’unità nazionale? Chi rischierà la nomea del traditore per difendere la causa di un Governo sembrato lontanissimo dalla realtà locale e incapace di un minimo di dinamismo politico?
Con questo gran pasticcio alle spalle, diventa molto difficile prevedere ciò che potrà accadere nel prossimo futuro. Le due parti, con le loro azioni improvvide, sono riuscite a confinarsi nelle posizioni estreme. Nessun discorso sull’indipendenza per Madrid. Solo l’indipendenza, perché ogni altra ipotesi ora sarebbe una sconfitta, per Barcellona. In mezzo c’è la realtà. Dell’economia, che imporrebbe alla Spagna di considerare il ruolo fondamentale della Catalogna nel sistema produttivo nazionale e alla Catalogna di capire che produrre non è la stessa cosa di amministrare, altrimenti la Comunità non avrebbe il deficit che invece ha. E via via della cultura, della lingua, persino dei sentimenti, che nella questione specifica giocano un ruolo importante.
Da questa contrapposizione, ridicola e drammatica insieme, si potrà uscire solo con la politica. Quella che è finora mancata e che i contendenti faranno meglio a riscoprire alla svelta, prima che il pasticcio sfugga loro totalmente di mano.
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